VITA E OPERE DI JOHN LOCKE
John Locke - filosofo inglese - nacque il 29.08.1632 a Wrigton e morì il 20.10.1704 a Oates. Venne educato presso la Westminster School e la Christ Church di Oxford; fu studente anziano della Christ Church dal 1656 sino alla sua morte.
Nel 1667 divenne consigliere e medico di Lord Ashley Conte di Shaftesbury, e nel 1668 venne ammesso alla Royal Society in qualità di membro. Fu nominato segretario per la presentazione dei benefici nel 1672 e segretario (1673 - 1675) al Concilio per il Commercio e le Piantagioni.
Costretto a trasferirsi prima in Francia (1675 - 1682)e poi in Olanda (1683 - 1689) per la sua opposizione agli Stuart, rientrò in Inghilterra nel 1689 con la Principessa di Orange, ritirandosi dalla vita politica e dedicandosi agli studi.
Dal 1691 sino alla sua morte visse nella casa padronale di Oates nell’Essex.
Cresciuto in una famiglia puritana e parlamentare, successivamente studiò filosofia, logica, ebraico, medicina, scienze naturali, Locke per tutta la vita credette nella libertà civile, nella tolleranza religiosa, nel potere della ragione, e nel valore dell’esperienza.
Fu un medico competente ed operò con successo il Conte di Shaftesbury.
Sebbene non si fosse sposato, egli amò i bambini, ed il suo trattato Alcune riflessioni sull’educazione è ancora raccomandato agli studenti di teoria dell’educazione. In questo trattato Locke stressò l’inutilità dell’intimidazione, l’importanza di suscitare interesse, ed il breve periodo di attenzione di un bambino, e raccomandò il metodo diretto dell’insegnamento delle lingue.
I suoi lavori filosofici più importanti sono il Saggio sull’intelligenza umana (1690) ed il Trattato sul governo civile (1690). Il primo gettò le basi all’empirismo inglese, ed il secondo espresse i principi fondamentali del pensiero democratico liberale.
Nel Saggio Locke attaccò la teoria delle idee innate, egli sostenne che questa era una ipotesi incomprensibile, inutile ed inadeguata per spiegare la nostra conoscenza di verità necessarie. Tutte le idee provengono dall’esperienza, che a sua volta proviene dalle sensazioni e dalle riflessioni. Dalle idee semplici, confrontando, combinando ed astraendo, noi costruiamo tutte le idee complesse. La conoscenza è la percezione delle connessioni tra le idee, le connessioni connaturate nelle scienze matematiche, nella logica, nell’etica, e le relazioni contingenti della coesistenza e successive scoperte per mezzo delle scienze sperimentali. La nostra conoscenza, pertanto, non va oltre le nostre idee che alla fine sono basate sugli effetti che le cose hanno sui nostri sensi. Tale conoscenza è sufficiente per i nostri bisogni, ma non può penetrare la reale essenza delle cose materiali o spirituali. Locke pertanto eliminò la metafisica dogmatica, ed aprì la strada allo scetticismo di Hume ed all’idealismo di Berkeley e Kant.
Nel Trattato Locke rifiutò il diritto divino dei re, e sostenne che gli uomini hanno un diritto naturale per legge di natura, che è la legge della ragione e di Dio. In una società civile gli uomini concordano di designare, con votazione a maggioranza, una entità governante a cui questi delegano il potere di legiferare e governare in accordo alla legge di natura per il bene comune. Se il governo è incapace di soddisfare questa credibilità, la sua pretesa di obbedienza decade. La monarchia assoluta è incompatibile con l’idea di una società civile, che richiede che ogni membro sia equamente sottoposto all’entità governante.
Altri importanti lavori di Locke sono il Saggio sulla legge di natura (1664), Pensieri sull’educazione (1693) e La ragionevolezza del cristianesimo.
JOHN LOCKE: SULL’ETICA IN GENERALE
Introduzione
Vi presento un documento inedito di John Locke del suo scritto filosofico “Sull’etica in generale”, che è a sua volta parte integrante del “Saggio sull’intelligenza umana” (1690).
Locke non espone alcuna esposizione sistematica della sua teoria morale, pur avendo sostenuto che l’etica fosse suscettibile di dimostrazione.
L’impresa di elaborare sistematicamente la teoria morale presenta oggettivamente delle difficoltà - in particolare per quanto riguarda la giustificazione della conoscenza dei fondamenti della morale - possono avere indotto Locke a limitare il suo impegno in tale ambito.
Locke aspirava ad un’etica capace di connettere l’edonismo della motivazione con il volontarismo dell’obbligo, rivolgendosi dunque alla scelta ed alla intelligenza degli “attori”.
Una conciliazione certo non facile, che probabilmente suggerì al filosofo di eliminare questo testo dal suo “Saggio sull’intelligenza umana”.
Le motivazioni che mi hanno spinto a selezionare questo passo degli scritti di Locke sono:
1. valore storico e bibliografico di un documento inedito; 2. notevoli spunti di riflessione che lo scritto stimola per i nostri architettonici lavori.
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Lo scritto di John Locke
1. Felicità e infelicità sono le due grandi molle delle azioni umane, e, con tutti i modi diversi in cui vediamo gli uomini affaccendarsi, essi aspirano tutti alla felicità, e cercano di evitare l’infelicità secondo come appare loro in diversi luoghi e forme.
2. Non ricordo di avere mai inteso di alcuna azione di uomini, che non riconosca che vi sia un giusto e un ingiusto nelle azioni degli uomini, così come vi è verità e falsità nelle loro parole. Alcune misure sono sempre state riconosciute, ovunque e quantunque differenti; e così alcune regole e norme secondo cui giudicare le azioni degli uomini, se fossero buone o cattive. Né credo vi sia alcun popolo che non distingua fra vizio e virtù. Qualche forma di moralità si trova accettata dovunque; non dirò che si tratti di una moralità perfetta ed esatta, ma pur sufficiente a dimostrarci che la nozione di essa é più o meno ovunque, e che gli uomini pensano che anche quando la politica, la società e i magistrati tacciono, pure anche allora gli uomini sono sottoposti a qualche legge, cui debbono obbedienza.
3. Ma sebbene l’etica sia il grande affare ed interesse del genere umano, e meriti quindi la nostra più attenta applicazione e studio, pure fin dall’inizio c’è una circostanza che merita di essere considerata, in quanto molto curiosa: che l’etica è stata sempre considerata e trattata come una scienza distinta dalla teologia, dalla religione e dal diritto; e che è stata il campo proprio dei filosofi, una specie di uomini diversi sia dai teologi che dai preti e dai giuristi, la cui attività è stata quella di chiarire e insegnare la conoscenza dell’etica al mondo. Questo è un chiaro argomento che qualcosa è stato scoperto dagli uomini intorno alla legge della natura, e che vi è una segreta apprensione di una regola di azione cui le creature razionali sono tenute a conformarsi, al di là sia di ciò che i preti sostengono essere il comando immediato del loro dio (infatti tutti i culti pagani pretendevano di essere rivelati, poiché la ragione mancava di sostenerli), sia da ciò che i giuristi sostenevano essere il comando del governo.
4. Ma tuttavia questi filosofi di rado derivano le loro regole dai principi, né le impongono come i comandi del grande Dio del cielo e della terra, secondo cui Egli compenserà l’uomo dopo questa vita; per cui la massima forza cogente che essi possono conferire ad esso è la stima e la disistima, attraverso quei nomi di virtù e vizio che essi hanno tentato, colla loro autorità, di rendere importanti presso i loro scolari, e tutta l’altra gente. Anche se non vi fossero leggi umane, o pene, od obbligazioni di sanzioni divina o umana, esisterebbero sempre delle specie di azioni come la giustizia, la temperanza, la fortezza, l’ubriachezza e il furto; e alcune di esse sarebbero stimate buone, e altre cattive: e vi sarebbero nozioni distinte di virtù e vizio. Infatti a ciascuno di questi nomi corrisponderebbe un’idea complessa, perché altrimenti essi, e tutte le parole che esprimono oggetti morali, in qualsiasi lingua, sarebbero un semplice balbettio. Tuttavia la conoscenza delle virtù e dei vizi che si raggiunge in questo modo si risolve in nient’altro che nel trarre le definizioni o i significati delle parole di una certa lingua o dagli uomini abili nell’uso di essa, o dall’uso comune di quel paese, le azioni particolari col loro giusto nome. In questo modo, in realtà, non si ricava nulla più che l’abilità di parlare a regola d’arte; o al massimo si giunge a sapere quali azioni, nel paese in cui ci si trova, sono stimate lodevoli o non lodevoli: il che torna a dire che sono chiamate virtù e vizi, secondo quella regola (che è la più generale che abbia trovato, e anche la più costante) per cui sono ritenute virtuose le azioni che si pensa siano assolutamente necessarie per la conservazione della società; mentre quelle che disturbano o annullano i limiti della comunità sono ovunque stimante cattive e viziose.
5. Ciò accadrebbe inevitabilmente se non vi fosse alcuna obbligazione, o legge superiore, a parte quelle sociali. Infatti non si può supporre che degli uomini si associno e si uniscano nello stesso Stato, e nello stesso non stimino lodevole, cioè non considerino una virtù, questo loro unirsi; e non disapprovino, e trattino come biasimevoli (cioè, considerino vizi) quelle azioni che portano alla dissoluzione della loro società. Ma tutte le altre azioni che non si pensa abbiano un’influenza immediata sulla società, ho trovato (nella misura in cui mi sono occupato di storia) che in certi paesi o società sono virtù, in altri vizi, in altri cose indifferenti, secondo che qui l’autorità di uomini stimati saggi, là l’inclinazione o l’uso del popolo, abbia finito di considerarle virtù o vizi. Dunque le idee di virtù cui si perviene in questo modo non ci insegnano che a parlare propriamente, secondo l’uso del paese in cui ci troviamo, senza che noi acquisiamo altra conoscenza oltre a quella di ciò che si intende con tali parole. Questa è la conoscenza compresa nell’etica comune delle Scuole, e non è altro che sapere i nomi esatti di determinati modi complessi, ed esser capaci di parlare propriamente.
6. L’etica delle Scuole si fonda sull’autorità di Aristotele, resa più complicata di parecchio con l’uso di parole difficili e distinzioni inutili, e non ci dice altro che ciò che essi si compiacciono di chiamare virtù e vizio, né dell’etica ci insegna altro che comprendere i loro termini, o chiamare le azioni come le chiamano loro o Aristotele; ciò che equivale a parlare propriamente il loro linguaggio. Poiché il fine e l’utilità dell’etica è quello di dirigere le nostre vite, e, mostrandoci quali azioni sono buone e quali cattive, prepararci a fare le prime e a non fare le seconde, quelli che sostengono di insegnare l’etica sbagliano di professione, e divengono solo maestri di linguaggio, se non fanno ciò che si è detto, e si limitano a insegnarci a parlare e a disputare e a chiamare le azioni coi nomi da loro prescritti; e se non ci mostrano i moventi che possono spingerci alla virtù e allontanarci dal vizio.
7. Solo le azioni che dipendono dalla scelta di essere intelligente e libero sono morali. E un essere intelligente e libero segue naturalmente ciò che gli causa piacere, e fugge ciò che gli causa dolore; cioè, cerca naturalmente la felicità, e respinge l’infelicità. Quindi ciò che gli causa del piacere è per lui buono; e ciò che gli causa dolore é cattivo. E ciò che causa il maggior dolore è il maggior male. Infatti la felicità e l’infelicità consistono solo di piacere o dolore della mente, del corpo o di ambedue, secondo l’interpretazione che di queste parole ho dato sopra (Libro 2, capitolo 24), per cui nulla può essere buono o cattivo, per nessuno, se non in quanto porta alla sua felicità o alla sua infelicità, e serve a provocare in lui piacere o dolore. Bene e male infatti sono termini relativi, e non denotano nulla nella natura della cosa, ma solo la relazione di essa con un’altra, secondo la sua capacità e tendenza a produrre in essa piacere o dolore. E quindi possiamo vedere e dire che ciò che è buono per un uomo, è cattivo per un altro.
8. Ora, sebbene ciò non sia riconosciuto generalmente, è proprio da questa tendenza a provocare in noi piacere o dolore che prende il suo nome il bene o il male morale, così come quello naturale. Forse non sarà considerato tanto erroneo, quanto, a prima vista, strano, se si afferma che non c’è nulla moralmente buono, che non produca in un uomo del piacere, e che non c’è nulla moralmente cattivo che non produca in lui del dolore. La differenza fra bene morale e naturale, e male morale e naturale é solo questa: che noi chiamiamo naturalmente buono o cattivo ciò che produce in noi piacere o dolore per l’efficienza naturale della cosa; e moralmente buono o cattivo ciò che porta con sé piacere o dolore per l’intervento di un agente libero e intelligente: non per alcuna conseguenza naturale, ma per l’intervento di quel potere. Così l’eccesso nel bere è un male naturale se porta con sé il malessere o il mal di testa; ma é un male morale in quanto trasgressione ad una legge, per cui vi si annette una pena. Premi e pene sono il bene e il male con cui i superiori impongono l’osservanza delle loro leggi: in quanto non è possibile porre alcun altro motivo o limite alle azioni di un essere libero e intelligente, se non la considerazione del bene e del male, cioè del piacere e del dolore, che ne seguiranno.
9. Chiunque tratta dell’etica solo per darci le definizioni di giustizia, temperanza, furto, incontinenza eccetera, e ci dice quali siano di essi virtù, e quali vizi, non fa che esporre alcune determinate idee complesse di modi, coi loro nomi, per cui noi si possa comprendere bene gli altri, quando parlano secondo le loro regole, e si possa parlare intelligentemente agli altri che sono informati della loro dottrina.
Ma finché parlano così acutamente di temperanza o giustizia, e non mostrano alcuna legge di un superiore che prescriva la temperanza a cui siano annessi premi e punizioni, la forza dell’etica è smarrita, e svapora in dispute e sottigliezze di parole. E per quanto Aristotele o Anacarsi o Confucio o chiunque altro chiami vizio o virtù questa o quest’altra azione, la loro autorità è sempre la stessa, e non esercitano che quel potere che tutti hanno: cioè, quello di mostrare quali idee complesse siano espresse dalle loro parole. Infatti, senza mostrare una legge che comandi o proibisca le azioni, la bontà morale non è che un vuoto suono; e quelle azioni che le scuole chiamano virtù o vizi, possono essere con eguale autorità chiamate con nomi contrari in un altro paese; e se non esprimono che le loro decisioni e determinazioni della questione, resteranno sempre del tutto indifferenti alla pratica umana: l’uomo, per una simile determinazione, non sarà sotto alcuna obbligazione.
10. Ma esiste un’altra specie di etica o regole delle nostre azioni che, sebbene possa in molti luoghi essere coincidente o conforme colla prima, non di meno ha una doverosa fondazione, e un diverso modo di conoscenza. Queste nozioni o regole delle azioni non sono infatti idee fatte da noi, cui noi diamo nomi, ma dipendono da qualcosa al di fuori di noi, e sono così fatte non da noi, ma per noi. Si tratta delle regole poste alle nostre azioni dalla volontà dichiarata di un altro, che ha il potere di punire i nostri errori. Queste sono propriamente e veramente le regole del bene e del male; e poiché la conformità o non conformità ad esse ci causano del bene o del male, esse influenzano le nostre vie, come le altre influenzano le nostre parole: e c’è tanta differenza, fra di esse, come ce n’è fra vivere bene, e conseguire la felicità, e parlare propriamente e intendere le parole. La nozione dell’una gli uomini la conseguono costruendosi una collezione di idee semplici, chiamata con quei nomi che essi pensano siano i nomi del vizio e della virtù; la nozione dell’altra la conseguiamo dalle regole imposteci da un potere superiore.
11. Ma poiché non possiamo giungere a conoscenza di queste regole senza, in primo luogo, conoscere un legislatore di tutta l’umanità fornito di potere e di volontà di premiare e punire e, in secondo luogo, senza mostrare come egli abbia dichiarato la sua volontà e legge, io devo per il momento solo supporre questa legge, finché non sia luogo per parlare di ciò, cioè di Dio e della legge di natura. Per il momento menzionerò solo ciò che è necessario per lo scopo presente, cioè, in primo luogo, che questa regola delle nostre azioni impostaci dal nostro legislatore tratta di, e infine si risolve in, quelle idee semplici di cui prima è stata fatta menzione, cioè, ama il prossimo tuo come te stesso. In secondo luogo, essendo nota, o supposta come tale, la legge, la relazione, cioè la conformità o meno di ciò che facciamo, a questa regola, è conosciuta facilmente e chiaramente come ogni altra relazione. In terzo luogo, che noi abbiano idee morali, così come altre idee, che perveniamo ad esse nello stesso modo, e che esse non sono che collezione di idee semplici. Dobbiamo solo tenere ferma con cura questa distinzione delle idee morali, cioè che esse hanno un doppio aspetto. In quanto hanno delle denominazioni proprie, come liberalità, modestia, frugalità, e sono solo dei modi, cioè azioni costituite da una precisa collezione di idee semplici, ciò che però non determina se siano buone o cattive, virtù o vizi. Poi, in quanto si riferiscono ad una legge, cui sono o meno conformi: e ciò determina il loro essere buone o cattive, virtù o vizi. era presso i Greci un nome di una simile particolare specie di azioni, cioè di una simile collezione di idee semplici impiegate in esse; ma se questa collezione di idee semplici, chiamata , fosse un vizio o una virtù, lo si sa solo confrontandole alla regola che determina il vizio o la virtù: e questa è la considerazione che si adatta in particolare alle azioni: cioè la loro conformità ad una regola. Da una parte, l’azione é solo una collezione di idee semplici, e quindi una positiva idea complessa. D’altra parte, essa è in relazione ad una legge o regola, e secondo la sua conformità o meno è un vizio o una virtù. Così l’educazione, la pietà, il banchettare o l’ingordigia sono similmente modi, non essendo che delle idee complesse chiamate con un nome; ma se sono considerate come virtù e vizi, e come regole di vita obbliganti, allora sono in relazione ad una legge, e devono essere considerate sotto l’aspetto di relazioni.
12. Quindi per stabilire l’etica sulle sue proprie basi, e sua una tale fondazione, che possano portare con sé un’obbligazione, noi dobbiamo innanzitutto provare una legge, che presuppone sempre un legislatore dotato di superiorità e di diritto di comandare, e anche di un potere di premiare e punire secondo il tenore della legge da lui stabilita. Questo sovrano legislatore, che ha posto regole e limiti alle azioni degli uomini, è Dio, il loro autore, la cui esistenza abbiamo già provato. Quindi la prossima cosa da mostrare è che vi sono delle regole e dei dettati, che Egli vuole siano sufficientemente promulgati e fatti conoscere agli uomini.
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Il passo sopra riportato di Locke stimola notevoli spunti di riflessione: di seguito ne presento alcuni.
Nella prima parte Locke (rif. § 1) identifica la felicità ed infelicità come le due grandi molle delle azioni umane e segnala l’attitudine umana all’aspirare alla felicità cercando di evitare l’infelicità. Locke riprende questo concetto al § 7 (Solo le azioni ………cerca naturalmente la felicità, e respinge l’infelicità. … Infatti la felicità e l’infelicità ……… e serve a provocare in lui piacere o dolore). Il profano durante il rituale d’iniziazione chiede di uscire dalle tenebre ed un aiuto a trovare “la luce”, perché sa che solo questa potrà dargli la felicità, cioè quell’equilibrio ed armonia di cui è alla ricerca.
Il fine e l’utilità dell’etica è di dirigere le nostre vite, e, mostrandoci quali azioni sono buone e quali cattive, prepararci a fare le prime e a non fare le seconde (rif. § 6). Solo le azioni che dipendono dalla scelta di un essere intelligente e libero sono morali (rif. § 7). La Fratellanza dei Liberi Muratori è una scuola di libero pensiero, e questo è sviluppato con il metodo insegnato dai Lavori di Loggia, da cui deriva la definizione di Massoneria come “Scuola di Metodo”, in contrapposizione decisa alle scuole di dottrina. Il profano che sente lo stimolo interiore di entrare a far parte della comunione dei Liberi Muratori sceglie liberamente di compiere questo passo; sia quando inizia il percorso nel Rito d’Iniziazione (il profano che chiede di essere accolto tra i Liberi Muratori può osare speralo solo se è stato valutato da altri Fr. “libero e di buoni costumi”), sia, quando già iniziato, nei Lavori Rituali (il rituale di 1° grado chiarisce che lo scopo dei lavori è di edificare templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità, e tutti i Lavori nel Tempio debbono essere permeati da serietà, senno, benefizio e giubilo).
Liberi di… e liberi da…
Al § 5 Locke spiega che occorre pensare all’esistenza di legge superiore, a parte quelle sociali, per categorizzare azioni che non abbiano un’influenza immediata sulla società. Al § 10 Locke introduce l’idea d’etica o regole delle nostre azioni che non sono fatte da noi, ma dipendono da qualcosa al di fuori di noi, e sono così fatte non da noi ma per noi. E queste sono propriamente e veramente le regole del bene e del male; la conformità o meno a queste regole ci causa il bene o il male. A questo punto individuata la Legge si pone il problema di individuare il legislatore, che Locke identifica in un’Entità Superiore: Dio (rif. § 12). Il parallelo tra il Dio di Locke che opera in tal senso ed il G.A.D.U. è palese. Gli Archittetonici Lavori sono finalizzati al bene dell’Umanità ed Alla Gloria Del Grande Architetto Dell’Universo. La Fratellanza è costituita da uomini che operano nella profonda convinzione di operare in tal senso.Il Libero Muratore costruisce interiormente il tempio armonico, ed in questo percorso è aiutato dalla partecipazione attiva ai Lavori di Loggia. Il tempio armonico interiore deve comunicare in equilibrio dinamico con il mondo esterno, con la molteplicità di templi armonici che lo circondano e di cui al tempo stesso egli è parte, come tessere di un variegato mosaico. Il prerequisito essenziale per avviare e mantenere questo processo è essere etici ed operare eticamente nel senso delineato da Locke.
Gli studi di Georges Hazan hanno confermato la fondatezza dell’antica opinione che Locke sia appartenuto alla Libera Muratoria (Travaux de Villard de Honnecourt, 1973). Quest’inedito di Locke è un’ulteriore inoppugnabile prova della sua appartenenza alla Libera Muratoria.
Sesto Minore van Pelt
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