LEON BATTISTA ALBERTI
E LA TRADIZIONE ROMANA
(Articolo
pubblicato da “La Cittadella” - Anno V, nuova serie,
n° 20, ottobre-dicembre 2005 e riprodotto per gentile concessione
dell’autore)
Leon Battista Alberti (Genova 1404-Roma 1472) è
oggi considerato il più grande architetto del Quattrocento,
e Roma lo ha giustamente onorato di recente con una mostra (La Roma
di Leon Battista Alberti. Architetti, umanisti e artisti alla scoperta
dell’antico nella città del Quattrocento) tenutasi
dal 24 giugno fino al 18 ottobre 2005 ai Musei Capitolini. Ma l’Alberti
rappresenta anche un’interessantissima figura di umanista
integrale, la cui cultura e competenza spaziavano dall’architettura
e dalla scultura alla poetica e alla grammatica, dalla musica all’ottica
. Si legge qui la lezione di quello che fu l’auctor dell’Alberti:
il romano Vitruvio con il suo De architectura, testo (dedicato ad
Ottaviano) in cui si ha la massima nobilitazione di quest’arte
e la teorizzazione della necessità di una vasta doctrina
nella figura dell’architetto, destinato a realizzare edifici
secondo le regole della symmetria e dell’eurythmia d’ispirazione
pitagorico-platonica .
L’albertiano De re aedificatoria, scritto tra il 1450 e il
1452, si può definire un moderno trattato vitruviano, e vi
si può vedere il rimanifestarsi di un’ars muratoria
e pitagorica profondamente classica e romana, - pensiamo al Tempio
di San Sebastiano a Mantova: “un edificio in cui viene ripresa
l’idea del ‘templum etruscum’” , e al Tempio
Malatestiano di Rimini, la cui fronte ripropone il modello dell’arco
romano, esplicitamente quello dell’arco augusteo della città
romagnola - ars in cui l’esperienza degli antichi è
rivissuta al di fuori della pura imitazione, ma in una sintesi mirabile
di fedeltà e di originalità che ai Fiorentini faceva
dire: Albertus vincit ipsum Vitruvium. D’altra parte, tutto
ciò aveva una controparte interiore, se le regole auree della
costruzione (esplicitamente pensata e realizzata come tota philosophia:
De re VII, 10) vennero dal Nostro applicate sapientemente anche
alla propria vita interiore, talché l’Alberti fu noto
per i suoi costumi austeri in un’epoca in cui le tendenze
erano per lo più altre. E come non ricordare, a questo punto,
che ai propri nipoti nel 1462 indirizzò un suo manoscritto
avente per oggetto le Sentenze pitagoriche?
L’Alberti sentì il richiamo potente del mondo classico
anche nel suo progetto educativo, esposto nei Libri della Famiglia,
scritti tra il 1434 e il 1441. Qui prende voce il ricordo del padre,
del quale risuscita quei conversari con gli amici in cui si rimpiangeva
“l’antiquo amplissimo nostro imperio” e si lamentava
il “noi populi italici così trovarci privati della
quasi devuta a noi per le nostre virtù da tutte le genti
riverenza e obedienza”, nonché il perdersi “della
nostra gentilissima lingua latina” (dal Proemio del Libro
III), lingua conosciuta benissimo da Leon Battista, che però
fu tra i coraggiosi sostenitori del valore letterario del volgare
(da ricordare che egli era di famiglia fiorentina: nacque a Genova
perché il padre vi si trovava in esilio).
Nel desiderio di veder tornato a splendere il primato di “noi
populi italici”, ecco dunque da parte dell’umanista-pedagogo
la proposta di un’educazione d’impronta greco-latina,
nella quale agli studia humanitatis si affianchino le discipline
fisiche all’aria aperta, tra cui l’equitazione, necessaria
per “al bisogno essere contro gli inimici della patria utili”,
ed elogiata col ricordo di “que’ giuochi troiani quali
bellissimi nella Eneida descrive Virgilio” (dal Libro I).
E che tutto ciò non fosse mero esercizio letterario lo si
desume dal fatto che l’Alberti stesso “domava cavalli,
era imbattibile nelle gare di giavellotto, riusciva a trafiggere
una corazza a colpi di freccia e a gettare una mela al di là
della cupola dell’enorme cattedrale di Firenze” .
Nel suo notevole saggio su Leon Battista Alberti e l’antichità
romana, Stefano Borsi sottolinea del resto come l’autore del
De re aedificatoria “mostra un vivo interesse anche per gli
aspetti politico-istituzionali dell’antica Roma, per la sua
storia civile prima dell’impero” . La sua romanità
è infatti più quella arcaica e repubblicana che quella
imperiale, così che in De re VIII, 7 il riferimento all’epoca
in cui a Roma si coniava l’asse in bronzo con l’effigie
di Giano si fa “immagine mitica dell’austera vita dei
primi Latini” , mentre nei ripetuti richiami albertiani alle
XII Tavole si unisce “al fascino di queste venerande fonti
giuridiche la naturale propensione di Alberti per ‘poche leggi,
ma buone’ come sarà esplicitato nel De iciarchia in
polemica con la moderna fibrillante proliferazione di decreti della
repubblica fiorentina” .
Questa romanità spirituale dell’Alberti non poteva
non portarlo a vivere a Roma, dove tra il 1432 e il 1472, anno della
morte, risiedette pressoché costantemente. Per questo soggiorno
nell’Urbe Franco e Stefano Borsi hanno parlato de “il
fascino e il significato del lungo, enigmatico periodo romano dell’artista”
. E su tale periodo occorre soffermarsi per intravvedere i rapporti
che l’Alberti ebbe con quei personaggi e quei circoli che
possono variamente esser connessi alla tradizione romana in quel
quarantennio che vede susseguirsi i pontificati di Eugenio IV, Niccolò
V, Callisto III, Pio II, Paolo II e Sisto IV.
Vincenzo Di Caprio ha evidenziato come a quel tempo a Roma si confrontassero,
intrecciassero e scontrassero più linee dell’“ideologia
classicista” . Una prima risulta essere quella egemonica dell’umanesimo
curiale, teso ad “un’apologetica del potere pontificio
basata proprio sull’universalismo classico-cristiano”
: è la linea dei papi umanisti, soprattutto di Niccolò
V. Una seconda è quella di un “platonismo romano”
connesso con il filo rosso che lega l’insegnamento fiorentino
del greco e pagano Giorgio Gemisto Pletone alla formazione di ambienti
in cui, come nella Firenze medicea, prisca theologia e cristianesimo
si fondono attraverso la mediazione neoplatonica, e per i quali
il punto di riferimento è, oltre al tedesco Niccolò
Cusano , un altro sapiente greco: il monaco basiliano Giovanni Bessarione,
discepolo di Pletone ma lontano dal dichiararsi al modo del suo
maestro apertamente pagano, tanto che, dopo il Concilio di Ferrara-Firenze
del 1438-39 per la riunificazione delle Chiese latina e greca, rimane
in Italia come cardinale cattolico, così che detta linea
è efficacemente incuneata all’interno dello stesso
Collegio dei cardinali (si noti che il Bessarione fu ben due volte
vicino ad essere eletto papa...).
Una terza linea è ancora quella di “un classicismo
diffuso al di fuori dell’ambiente di Curia e mosso da esigenze
ideologiche rapportabili all’eredità della tradizione
municipale romana” . E qui si scorge “l’esile
ma importante filo di un diverso rapporto con l’antichità
classica romana che tende a sottrarre alla Curia l’egemonia
di questa tradizione, non solo sul terreno della rivendicazione
di un’eredità di gloria, ma anche su quello stesso,
antiquario ed erudito, su cui l’umanesimo curiale si era mosso”
. Questo “filo”, mentre ci riporta indietro fino a Cola
Di Rienzo , ha il suo punctum a quo quattrocentesco nella figura
di Stefano Porcari. Il Porcari, che si voleva discendente dalla
gens Porcia, aveva in proprio una concezione secondo cui la romanità
sarebbe stata “un patrimonio esclusivo di cui i Romani sono
gli unici eredi diretti, un insieme di valori non solo aventi, come
è naturale in un’ottica classicistica, una validità
universale, ma anche perennemente attuali non in nome di questa
universalità ma in nome di una trasmissione quasi biologica:
sempre potenzialmente attivi nei Romani, appunto in quanto Romani,
basta richiamarli alla coscienza perché diventino operanti”
. Questa linea è quella che culminò in uno scontro
aperto col potere papale, poiché Porcari, rivendicando la
romana libertas dapprima (1447) come maggiore autonomia della Città
dalla Chiesa, quindi (1453) come instaurazione di una Romana respublica
da attuarsi tramite una congiura che forse avrebbe goduto dell’appoggio
del re di Napoli, finì impiccato .
La quarta linea è per noi la più interessante, ed
è quella dell’Accademia romana di Giulio Pomponio Leto.
Questa si intreccia profondamente con le altre, poiché sorge
in rapporto alle istanze umanistiche del papato, ma si distingue
presto per un’impronta fin troppo esplicitamente pagana, che
da un lato sembra da mettersi in relazione con la corrente del Bessarione,
cui si deve la circolazione a Roma di Proclo e perfino dell’Oratio
IV al Sole dell’imperatore Giuliano - il che fa ritenere che
il cardinale Bessarione abbia preso solo entro un certo limite “pubblico”
le distanze dal suo maestro Gemisto , - dall’altro ha una
sua facies squisitamente romana, poiché è manifesto
il suo richiamo anche rituale alla religio prisca di Roma (cerimonie
per il 21 aprile, restaurazione occulta del pontificato massimo
ecc.). In questo suo romanesimo integrale, l’Accademia pare
debba legarsi con la linea municipalistica del Porcari, tanto che
nel 1468 papa Paolo II la scioglie e ne imprigiona i membri con
accuse pesantissime “che vanno dall’eresia al neopaganesimo
all’accettazione della confutazione valliana della veridicità
della donazione di Costantino” , fino a quella, appunto già
imputata al Porcari, di voler rovesciare il potere temporale dei
papi.
In tale ambiente variegato si muove la vita romana, e non solo,
dell’Alberti. È possibile infatti mettere quest’ultimo
in rapporto con tutti gli ambienti e i personaggi citati, e così
fanno Franco e Stefano Borsi . Questi studiosi rilevano come le
relazioni tra il papato e l’Alberti, che tra l’altro
a Roma aveva preso gli ordini minori per usufruire degli annessi
benefici secondo l’uso del tempo, si presentano non ben chiarite
e oscillanti in relazione all’alternarsi dei pontefici e alle
vicende che si connettono alle correnti e alle personalità
prima passate in rassegna . Quello che sappiamo per certo è
che l’Alberti, nell’Urbe e nel Latium Vetus, è
intensamente partecipe alle attività antiquarie dell’epoca,
in modi che hanno fatto scrivere di “una Roma che lui avverte,
da rabdomante dottrinatissimo, quale calamita solenne di antichità
da rispolverare religiosamente” . Altrettanto certo è
che in tale opera gode dell’incoraggiamento e della protezione,
oltre che del Bessarione, del cardinale Prospero Colonna, in passato
scomunicato da Eugenio IV come ghibellino.
I rapporti col cardinale niceno non sono di facile definizione,
ma è un fatto che l’Alberti è inserito nel novero
degli appartenenti alla Bessarionis Academia dal canonico veneto
Andrea Contrario, residente a Roma sotto Nicolò V . Quanto
alla relazione col cardinale romano, essa si configura come un più
ampio e intrigante “rapporto sfuggente con un ambiente, come
quello dei Colonna, vivamente appassionato delle antiquitates Latii”
. I legami dell’architetto fiorentino con la famiglia Colonna
non si limitano infatti al solo cardinale, e sono particolarmente
interessanti perché tale famiglia vantava una diretta discendenza
dalla gens Iulia (si ricordi la dedica di Vitruvio ad Augusto e
si dia la giusta considerazione al dato che a casa di Prospero si
riuniva una Accademia Vitruviana…) e non era aliena, anche
nei suoi membri ecclesiastici, da interessi che la riportano sia
alla linea del Bessarione sia a quella del Leto .
A Roma Leon Battista Alberti lavora alla sua Descriptio urbis Romae
e “Potrebbe essere legata ai misteriosi rapporti con Prospero
Colonna anche la prima fase di indagini sugli antichi acquedotti,
in particolare su quello dell’Acqua Vergine, dispersa, a detta
del Torelli, ‘per Quirinalis collis cavernas’”
. Ma la topografia e l’archeologia romane dell’Alberti,
che troveranno ampia eco nel De re aedificatoria, sono attentissime
alla sfera del sacro dei primordia Urbis, e il suo interesse si
concentra su una “limitata area […] legata alla memoria
di riti e siti latini antichissimi (Umbilicus Urbis, Mundus, Volcanal),
in rapporto con lo Speculum Dianae e i culti della dea nemorense
e aricina”, il che implica “ancora una volta il rapporto
con Prospero Colonna, signore feudale dei luoghi legati al culto
di Diana (tra cui Genzano) e appassionato cultore delle antiquitates
romane e laziali” .
Stefano Borsi sottolinea in particolare l’attenzione albertiana
verso il Comitium, indagato attraverso i testi di Varrone e Plutarco,
“privilegiando la biografia di Numa” e interessandosi
al mistero “pitagorico” del sepolcro del re (De re VI,
4). Inoltre, lo stesso Borsi, sulla base del libro V del De re,
si pone l’interrogativo se l’indagine “sul campo”
dell’Alberti, volta a verificare “la tradizione arcaica
dell’Auguraculum sul Campidoglio” , scenario della inauguratio
di Numa in Plutarco e Livio, non abbia pure una possibile lettura
colonnese, così osservando: “L’asse visuale del
rituale punta dal Campidoglio al Mons Albanus (a grande distanza:
‘longissime’) e la cosa desta una certa curiosità
perché potrebbe riproporre una possibile traccia del rapporto
con Prospero Colonna, signore e frequentatore di quei luoghi. L’altro
Auguraculum dell’antica Roma arcaica e repubblicana sorgeva
sul Quirinale, in analogico rapporto con i Comitia del Campo Marzio,
e ancora una volta si delineerebbe il problema del cardinal Colonna
che sul colle aveva la sua munita residenza romana” .
Ed è proprio Prospero Colonna che nel 1447, anno in cui l’Alberti
termina la sua Descriptio urbis Romae, gli affida la missione del
recupero delle due navi romane giacenti in fondo al lago di Nemi:
il nobile romano è infatti, come si è già evidenziato,
il signore di questo luogo, tra i più sacri del Lazio antico,
legato com’è al mistero di Diana e del rex Nemorensis.
Dette navi erano quelle ivi portate da Caligola, e secondo Renato
del Ponte “si deve supporre che vi avvenissero riti, di natura
non precisata, legati alla ‘numinosità’ del nemus”
. D’altro canto, sempre del Ponte ci avverte: “Che un
particolare legame potesse esistere fra la gens Julia ed il nemus
Aricinum sembra indicare il fatto che proprio la madre di Ottaviano,
Azia, era nativa di Ariccia” .
Le navi di Nemi sono pure all’origine di un perduto trattatello
albertiano dal titolo Navis, di cui è fatta parola nel De
re aedificatoria, e che i Borsi ritengono adombrato in un passo
dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, nel quale
“i riferimenti albertiani [...] sono molteplici” . Ovviamente
ciò sarebbe ancora più denso di significato se il
Francesco Colonna dell’Hypnerotomachia, opera apparsa nel
1499, fosse davvero da identificarsi, come vuole una contestata
tesi di Maurizio Calvesi, con l’omonimo signore di Palestrina
, la romana Praeneste, sito che col suo palazzo colonnese, ai piedi
del quale si distendono i resti dell’antico santuario della
Fortuna Primigenia, sarebbe anch’esso richiamato nell’Hypnerotomachia
. Ora, proprio a Palestrina, dopo Nemi, troviamo ancora l’Alberti,
nel 1454, su sollecitazione di Stefano Colonna, il padre del patrizio
romano Francesco...
Le notizie su Leon Battista Alberti sono più rade negli anni
in cui si fanno più forti le tensioni tra papato, famiglie
baronali, umanesimo civile municipalista ed umanesimo platonizzante.
È il periodo delle già accennate congiure, e va data
evidenza ai seguenti fatti. Nel 1453 si ha la congiura e la morte
di Stefano Porcari , la cui memoria è affidata proprio ad
uno scritto dell’Alberti, il De Porcaria coniuratione, che
in tal modo fornisce la chiave della vicenda dello sfortunato Romano:
“Coepit [...] veterem Urbis gloriam deperditam deplorare et
temporum iniurias detestari”. Nel frattempo, nel 1463, sotto
il pontificato di Pio II, che fa registrare una frattura tra la
Curia e gli umanisti meno ortodossi, muore il protettore del Nostro,
il cardinale Colonna, ed egli, “non a caso” , si trova
privato della sua rendita di scrittore apostolico presso la Curia.
Con Paolo II l’accennata frattura si radicalizza e nel 1468
avviene l’arresto di Pomponio Leto e degli altri accademici
romani. Che all’Alberti non erano affatto sconosciuti; basti
citare il fatto che uno dei principali membri dell’Accademia,
il Platina (Bartolomeo Sacchi), allorché nel 1459 Ludovico
Gonzaga aveva chiamato presso di sé a Mantova l’Alberti
come architetto, commissionandogli tra le altre cose un monumento
a Virgilio, era stato pure lui convocato per la restaurazione filologica
dei testi virgiliani . Le corti padane erano allora tutto un fiorire
di fermenti esoterici e pagani, e l’Accademia Romana fu accusata
di essere in rapporti cospiratorii con Sigismondo Pandolfo Malatesta,
signore di Rimini e nemico acerrimo del papa: l’interrogatorio
sotto tortura nelle carceri pontificie del sopra citato Platina
era stato volto, per l’appunto, ad accertare il coinvolgimento
malatestiano nella congiura .
Si è ampiamente detto del legame tra Leon Battista Alberti
e Prospero Colonna, ma nell’epistolario di Flavio Biondo,
come nota Stefano Borsi, si “ricorda la sontuosa festa offerta
da Prospero, nei giardini del Quirinale, in onore di Sigismondo
Malatesta […], e anche questo è uno snodo molto interessante
per ricostruire il milieu romano (e non solo) di Alberti, o per
comprendere le sue aperture presso le corti italiane” . Così
dal signore di Rimini, intorno al 1450, troviamo anche l’Alberti
architetto, cui si deve la decisa impronta alla ristrutturazione
esterna della Chiesa di S. Francesco, secondo un progetto finalizzato
a trasmutarla nell’incompiuto ma famoso - lo si è ricordato
già all’inizio di questo scritto - Tempio Malatestiano.
Un edificio sacro voluto per celebrare l’amore del committente
per la bella Isotta degli Atti, ma anche destinato ad accogliere
le spoglie del sapiente pagano Giorgio Gemisto Pletone, dal dux
riminese recuperate a Mistra, in Morea, nel 1465, durante la guerra
coi Turchi, combattuta sotto le bandiere veneziane .
Di questo Tempio dai complessi simbolismi esoterici ed astrologici
, cui lavorarono, oltre a Leon Battista Alberti, Matteo de’
Pasti e Agostino di Duccio, il papa Pio II (l’umanista Enea
Silvio Piccolomini), che nel 1462 aveva scomunicato Sigismondo condannandolo
al rogo in effigie , scrisse nei suoi Commentarii: “A Rimini
ha eretto un nobile tempio a San Francesco, ma l’ha riempito
di opere così pagane che non sembra più un tempio
cristiano ma di infedeli adoratori di demoni; in esso ha eretto
una splendida tomba alla sua concubina, apponendovi questa iscrizione,
alla maniera pagana: ‘Divinae Isottae sacrum’”.
Si è detto del culto solare neoplatonico importato a Roma,
segno di un rapporto stretto tra il paganesimo ellenico della Mistra
pletoniana e il paganesimo romano dell’Accademia pomponiana
; non va dunque sottovalutato, sempre riguardo al Tempio riminese,
che “Era nella mente di Leon Battista Alberti lasciare la
massima libertà alla circolazione della luce, che inonda
la navata ed è potenziata dal colore dei marmi. […]
Nella cappella intitolata a San Sigismondo è conservata una
epigrafe che fa riferimento al culto del Sole […]” .
È noto che, anche per l’interessamento del Bessarione,
il quale probabilmente aveva capito che era saggio essere cauti
e lavorare per la trasformazione interna del cristianesimo secondo
la linea platonizzante del Cusano, i congiurati pomponiani vennero
poi tutti liberati entro il 1471, col pontificato di Sisto IV, sotto
il quale l’Accademia risorse (nel 1478) senza più esplicitare
intemperanze pagane . L’Alberti, dal canto suo, visse i propri
ultimi anni (quello della morte, il 1472, è pure l’anno
in cui scompare Bessarione, mentre il Leto si spegnerà nel
1497) sempre più appartato, ma con insopito l’amore
per Roma antica: lo troviamo ad Albano per sopralluoghi archeologici
e poi, nel 1471, come guida nell’Urbe della legazione fiorentina
presso il neoeletto papa Sisto IV. Tale legazione era composta da
Bernardo Rucellai, Donato Acciaiuoli e Lorenzo il Magnifico, ancor
giovanissimo e di cui l’architetto-umanista fu per breve tempo
precettore.
L’episodio - in cui l’Alberti, malgrado l’età,
appare virilmente a cavallo tra le rovine romane - ci è narrato
nel suo De urbe Roma dal Rucellai , aristocratico repubblicano che
più tardi darà vita a Firenze agli “Orti Oricellari”
(latinizzazione del nome dei Rucellai, il cui palazzo fiorentino
era stato progettato proprio dall’Alberti), un circolo che
nel 1515 sarà rivitalizzato dal nipote Cosimo e frequentato
dal Machiavelli, il quale vi ambienterà i dialoghi del suo
Dell’arte della guerra, aventi come protagonista il famoso
condottiero Fabrizio Colonna. Ma…
“Negli Orti (che si ricollegavano idealmente alle lontane
riunioni del Paradiso degli Alberti e a quelle più recenti
dell’accademia ficiniana) si parlava di neoplatonismo, di
culto degli antichi, di repubblica, di lingua volgare, di libertà
d’Italia”.
Sandro Consolato
Sull’Alberti e il suo genio multiforme, cfr.
C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, a cura di P. Claut e
con premessa di A. Tenenti, Firenze 1998. L’umanista, cosa
poco nota se non agli esperti, a causa della sua opera De cifris
(1466), “merita a pieno titolo l’appellativo di ‘Padre
della crittografia occidentale’” (D. Kahn, Il ‘De
cifris’, classico crittologico, ne “Il Sole-24 Ore”,
18 dic. 1994).
Sull’estetica di Vitruvio e su quella dell’Alberti,
cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell’Estetica, tr. it., Torino
1979-1980, rispettivamente il vol. I, pp. 308-322, e il vol. III,
pp. 113-135.
A. Calzona, Itinerario di una nuova terra santa, in “Art e
Dossier”, n° 93, sett. 1994, pp. 4-10, v. p. 5.
Cfr. ibid., p. 10.
W. Tatarkiewicz, op. cit., vol. III, p. 114.
S. Borsi, Leon Battista Alberti e l’antichità romana,
Firenze 2004, p. 101.
Ibid., p. 72.
Ibid., p. 93.
F. e S. Borsi, Leon Battista Alberti, Dossier del n° cit. di
“Art e Dossier”, p. 45. La questione è stata
poi approfondita dal solo Stefano Borsi nell’ampio saggio
già citato.
V. Di Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana.
Storia e geografia, vol. II: L’età moderna I, Torino
1988, pp. 327-472. Per quanto si dirà, cfr. le pp. 360-453,
che sono di notevole interesse.
Ibid., p. 448.
Ibid., p. 403.
Su Pletone, di cui tratterò autonomamente in un prossimo
articolo, rimando per ora, in italiano, all’ampio Dossier
Platonismo di “Arthos”, n. s., n° 12, a. 2004, e
all’indispensabile Sul ritorno di Pletone. Un filosofo a Rimini,
atti del ciclo di conferenze tenute a Rimini dal 22 novembre al
20 dicembre 2002, a cura della Biblioteca Civica Gambalunga, dell’Associazione
culturale O. L. P. One Labour Party e di Raffaelli Editore, Rimini
2003. Su internet, v. M. Neri, I segreti di Giorgio Gemisto Pletone,
http://www.ritosimbolico.net/studi2/studi2_10html.
Il Cusano è detto “ardente seguace della filosofia
pitagorica” da Arturo Reghini nel suo saggio Sull’origine
del simbolismo muratorio (1923), ora in Id., Paganesimo Pitagorismo
Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Furnari (ME)
1986, pp. 49-63, v. p. 55 e sgg.
V. Di Caprio, op. cit., p. 361.
Ibid.
Su questa figura, cfr. E. A. Sorìa, Cola di Rienzo e Mussolini:
vite e morti parallele, ne “La Cittadella”, n .s., n°
10, apr.-giu. 2000, pp. 47-51.
V. Di Caprio, op. cit., p. 448.
Il Porcari “disegnava di fare prigionieri il papa e i cardinali,
ucciderli occorrendo, impadronirsi del Campidoglio e di Castel Sant’Angelo,
assumere nome di tribuno, potestà di signore di Roma, ridurre
il papa allo ‘spirituale’” (dalla voce Porcari,
Stefano dell’Enciclopedia Italiana).
“È indicativo il fatto che il codice Vaticano greco
2236, che contiene l’Oratio e testi del Pletone e del Bessarione
sia scritto da Demetrio Rhallis, allineato sulle posizioni di Gemisto
Pletone, presente a Roma nella seconda metà del secolo, fino
alla sua morte” (Di Caprio, op. cit., p. 405). Su Demetrio
Rhallis (grecizzazione del nome normanno Raoul), cfr. R. del Ponte,
Tra i seguaci di Gemisto Pletone. Un aristocratico greco-normanno
adoratore del Sole e un “martire pagano” del XV secolo,
in “Arthos”, n° 12 cit., pp. 208-209. Per il cripto-paganesimo
del Bessarione, cfr., sempre in “Arthos” n° 12,
pp. 210-211, In lode di Giorgio Gemisto Pletone. Lettere del cardinale
Giuseppe Bessarione in occasione della scomparsa del filosofo e
maestro (1452). Nella Lettera ai figli di Gemisto si legge: “Il
cardinale Bessarione saluta Demetrio e Andronico, figli del sapiente
Gemisto. Ho appreso che il nostro comune padre e maestro ha deposto
ogni spoglia terrena e se n’è andato in cielo, al sito
di ogni purità, per unirsi al coro della mistica danza di
Jacco [id est il Dioniso dei Misteri di Eleusi - ndr] con gli dèi
olimpici”.
V. Di Caprio, op. cit., p. 400. Su L’ 'Accademia Romana’,
Pomponio Leto e la congiura, v., con questo titolo, il § IV
del saggio di E. Garin La letteratura degli umanisti, nella Storia
della Letteratura Italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano
1966, vol. III, pp. 142-158. Per le evidenze archeologiche del culto
pagano romano entro l’Accademia, cfr. Un episodio di restaurazione
del pontificato massimo pagano nel Rinascimento, ne “Il Ghibellino”,
n° 4-5-6, dic. 1981, pp. 23-30.
Cfr. sia F. e S. Borsi, art. cit., sia S. Borsi, op. cit.
Cfr. F. e S. Borsi, art. cit., pp. 44-45.
M. Vallora, Alberti. Quanto sei bella Roma, in “tuttoLibri”
(supplemento de “La Stampa”), n° 1482, 24 sett.
2005, p. 9.
Cfr. S. Borsi, op. cit., p. 125. In particolare, alle pp. 119-120,
Borsi scrive: “A Tuscolo, in un clima di scontato revival
ciceroniano, Alberti poteva render visita in villa al Bessarione,
tra i cui clientes lo ricorda Andrea Contrario. La testimonianza
deve necessariamente precedere il 1471, anno in cui Andrea si trasferisce
a Napoli. Il Niceno è commendatario dell’abbazia di
Grottaferrata, che secondo Bracciolini e Biondo insisterebbe sui
resti della villa tuscolana di Cicerone, dal 1462. È questo
un rapporto importante su cui indagare, ben oltre le tracce documentarie
che ha lasciato.” Sulla problematicità di uno studio
dei pur certi rapporti Bessarione-Alberti, v. sempre S. Borsi, op.
cit., pp. 176 sgg.
Ibid., p. 11.
S. Borsi, op. cit., pp. 30-31, a proposito degli interessi colonnesi
verso il Latium Vetus, commenta significativamente: “Che poi
queste rievocazioni e indagini erudite assumessero implicazioni
che andavano oltre il ristretto ambito culturale è un discorso
che porterebbe troppo in là. Del resto anche il De antiquitate
Latii di Antonio Volsco originerà, certo non per caso, in
ambito pomponiano”. Sui Colonna in rapporto all’Alberti
e alle correnti sapienziali del tempo, cfr. l’articolata trattazione
di questo tema presente in E. Kretzulesco-Quaranta, Les jardins
du songe. "Poliphile” et la Mystique de la Renaissance,
Roma 1976. Sulla tradizione famigliare dei Colonna quali discendenti
della gens Iulia, R. del Ponte, ne Il movimento tradizionalista
romano nel Novecento, Scandiano 1987, p. 21, n. 13, scrive: “Risulterà
forse sorprendente apprendere come i Colonna possedessero ancora
fino ai nostri giorni (è documentato almeno sino al 1927)
il ‘feudo’ originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie
d’Albano). Sempre fino al 1927 era visibile nel giardino Colonna
al Quirinale l’altare antico dedicato al Vediove della gens
Julia […] Tolomeo I Colonna ostentava il titolo di Romanorum
consul excellentissimus e Julia stirpe progenitus”. Jacob
Burckhardt, nella sua famosa opera La civiltà del Rinascimento
in Italia (tr. it., La Spezia 1987, p. 160, n. 5), nelle belle pagine
dedicate a Roma come “città delle rovine”, rimanda
a Iac. Ab.Aquis, Imago Mundi (Hist. patr. Monum. Script. t. III,
col. 1603) “sull’origine della Casa Colonna con accenno
al ritrovamento di tesori nascosti”. Sui tesori nascosti e
l’esoterismo romano, cfr. S. Consolato, “Gter-ma”
tibetani e “cose fatali” romane, ne “La Cittadella”,
n. s., n° 6, apr.-giu. 2002, pp. 14-23.
S. Borsi, op. cit., p. 26.
Ibid., p. 99.
Ibid., p. 30. Cfr. anche p. 104.
Ibid., p. 109.
Ibid., p. 110, dove l’ottimo S. Borsi, fino a p. 111, così
continua: “Come nei monumenti citati nel libro III ‘apud
Comitium’, anche questo accenno all’Arx capitolina e
ai suoi antichissimi culti del libro V sembrerebbe il residuo scarnito
di un lavoro legato, se non alla diretta committenza, almeno alla
cultura maturata attorno alla figura del cardinale-principe Colonna.
Il nesso, non solo topografico, fra Auguraculum e Comitium è
sottolineato dall’archeologia moderna (F. Coarelli, Il Foro
Romano. I. Il Periodo arcaico, Roma 1983 [rist. 1992], p. 107).
Del resto, Numa, completate le operazioni rituali dell’inauguratio
capitolina, scese a incontrare il popolo proprio nell’area
del Comitium. Il sovrano ‘de templo descendit’ (Livio,
I, 18, 10), seguendo evidentemente un itinerario riconoscibile:
il percorso delle Scalae Gemoniae. Sempre dal libro I di Livio Alberti
ottiene informazioni sul ruolo rituale della rocca: l’augure
infatti è ‘deductus in arcem’ (I, 18, 6), e dalla
rocca vengono prelevate essenze particolari come la verbena rituale:
‘Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit’ (I,
24, 5). Non sono in grado di stabilire se Battista potesse anche
tener conto di un accenno di Cicerone (De officiis, III, 16, 66)
a una casa da demolire sul Celio perché impediva la corretta
visibilità del rito augurale (del Mons Albanus, evidentemente),
ma non c’è dubbio che tutte le fonti qui richiamate
gli fossero particolarmente familiari. L’Auguraculum, è
altrettanto indubbio, è un antichissimo ed enigmatico luogo
che ha attirato la sua attenzione”.
R. del Ponte, Dei e miti italici, III ed. riv., Genova 1998, p.
185, n. 125. L’Alberti tentò di recuperare le navi
di Caligola con l’ausilio di palombari (i “marangoni”)
fatti venire apposta da Genova, i quali però non riportarono
in superficie che un pezzo del fasciame. Altri tentativi di recupero
avvennero nei secoli seguenti, ma le navi furono finalmente tratte
dal lago solo tra il 1928 e il 1932, per esplicito volere di Mussolini.
Ospitate dal 1935 nel museo fatto costruire all’uopo nello
stesso sito di Nemi, sarebbero ancora visibili se non fossero andate
distrutte nell’incendio del 31 maggio 1944, attribuito (ma
non v’è certezza della cosa) alle truppe tedesche in
ritirata.
R. del Ponte, loc. cit.
F. e S. Borsi, art. cit., p. 45, n. 9. Ma vedi soprattutto S. Borsi,
op. cit., pp. 11-14 e 112-114.
Cfr. M. Calvesi, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980; Id.,
Hypnerotomachia Poliphili. Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie
per Francesco Colonna signore di Preneste, in “Storia dell’Arte”,
n° 60, pp. 85 ss.; Id., La “pugna d’amore in sogno”
di Francesco Colonna romano, Roma 1996. La tesi di Calvesi è
decisamente rifiutata dai curatori, M. Ariani e M. Gabriele, dell’ed.
adelphiana di F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Milano 1998,
v. t. II, p. LXXI e sgg.
Cfr., anche per la restante letteratura, l’op. cit. della
Kretzulesco-Quaranta, la cui tesi è addirittura che “n’est
donc pas hasardeux d’attribuer à Alberti la promenade
archéologique de Poliphile, sous les auspices de l’Accademia
Vitruviana du cardinal Colonna” (p. 394). Per la Kretzulesco-Quaranta
l’Hypnerotomachia sarebbe un’opera a più mani,
tra cui quella dell’Alberti. Quest’ultimo invece risulterebbe
essere proprio l’autore dell’enigmatico romanzo secondo
L. Lefaivre, Leon Battista Alberti’s Hypnerotomachia Poliphili.
Re-Cognizing the Architectural Body in the Early Italian Renaissance,
Cambridge (Mass.) – London 1997. Pure questi autori sono contestati
da M. Ariani e M. Gabriele: cfr. F. Colonna, op. cit., pp. LXXXIV-LXXXV.
R. del Ponte, nel suo Il movimento tradizionalista romano, cit.,
pp. 20-21, rifacendosi alla tesi calvesiana, si sofferma sull’opera
di Francesco Colonna in rapporto alla tradizione romana e pagana
del Rinascimento, rapporto che alla fin fine è quello che
qui più ci interessa. Sul palazzo dei Colonna e il santuario
prenestino della Fortuna Primigenia, in cui è presente anche
una componente che rinvia al mondo egizio, cfr. P. Lanzara, Questioni
di Fortuna, in “Bell’Italia”, n° 90, ott.
1993, pp. 84-99.
È singolare che per quasi tutto il 1452, anno precedente
la congiura, il Porcari, a Bologna in “libertà vigilata”,
abbia frequentato giornalmente il cardinale Bessarione, che, come
rappresentante di Niccolò V, doveva tenerlo sotto controllo
(cfr. la voce Porcari, Stefano, del Grande Dizionario Enciclopedico
Utet).
F.e S. Borsi, art. cit., p. 45.
Cfr. A.Calzona, art. cit., p. 8. Cristoforo Landino nelle sue Disputationes
Camaldulenses (1475) ci presenta un Alberti esegeta virgiliano ospite
a Figline Valdarno di Marsilio Ficino, in compagnia di Lorenzo e
Giuliano de’ Medici e dello stesso Landino, autore di un Comento
a Dante. Per la Kretzulesko-Quaranta, op. cit., p. 402, “Dante
avait choisi Virgile comme guide jusqu’au seuil de l’univers
divin; il était donc essentiel que le commentateur de Virgile
et celui de Dante fussent ensemble présents à cette
riunion, pendant laquelle les tendances des deux Académies,
la Romaine et la Florentine, trouvèrent leurs points de convergence”.
Dal canto suo S. Borsi, in op. cit., p. 177, non solo segnala che
il Bessarione “era in rapporti epistolari col Ficino, che
a sua volta, nel commentario al Timeo, ha parole di elogio nei confronti
di Alberti”, ma osserva altresì che: “Per gli
intellettuali fiorentini non doveva essere troppo difficile vedere
in Leon Battista un platonico […]. C’è poi un
altro punto di contatto tra Battista e Ficino: l’interesse
comune per il pitagorismo. Non è del tutto casuale che negli
anni delle Sentenze [pitagoriche – ndr] albertiane Marsilio
abbia latinizzato l’Aureum Pythagoreorum Carmen”.
Narrato dal Platina stesso nel suo Liber de vita
Christi ac omnium pontificum, l’interrogatorio, in cui egli
peraltro ammise di aver avuto relazione con Sigismondo, ma per soli
fini culturali, così è rievocato da Ezra Pound, ammiratore
di Malatesta e di Pletone, nei Cantos (XI): “E Platina dopo
disse, / quando lo misero dentro, / Il Platina e l’Accademia
Romana, / Per aver nelle catacombe inneggiato a Giove, / Sì,
io lo vidi, quand’era quaggiù / Pronto a sgozzare Paolo
‘Formosus’ / E vogliono sapere di che noi parlavamo?
/ ‘de litteris et de armis, praestantibusque ingeniis, / Dei
tempi antichi e nostri; libri, armi, / E uomini di raro ingegno,
/ Dei tempi antichi e nostri, insomma / Di quel che si parla fra
uomini sensati.” (dalla tr. it. di M. de Rachewiltz, E. Pound,
I Cantos, Milano 1996, pp. 99-101)
S. Borsi, op. cit., p. 30.
Sul rapporto Malatesta-Pletone, cfr. S. Ronchey, Giorgio Gemisto
Pletone e i Malatesta, in Sul ritorno di Pletone, cit., pp. 11-24;
M. Bertozzi, Giorgio Gemisto Pletone e il mito del paganesimo antico:
dal Concilio di Ferrara al Tempio malatestiano di Rimini, ivi, pp.
81-104. Di Sigismondo Pandolfo Malatesta va ricordato il contributo
al ri-nascimento non solo delle virtù sapienziali d’Italia
ma anche delle virtù militari. Suo stretto consigliere, e
come Pletone poi accolto anche lui da morto nelle arche esterne
del Tempio, fu il riminese Roberto Valturio, autore del trattato
De re militari che, scritto per il suo Signore, ebbe poi larga fortuna
in tutta Europa. In quest’opera, che spazia dall’ingegneria
militare all’artiglieria, fa peraltro capolino la partecipazione
dello stesso Valturio alla sapienza segreta chiave dell’edificazione
del Tempio malatestiano, accennando egli (De re militari XII, 13)
“ai ‘nascosti penetrali della filosofia’ da cui
il principe ‘acutissimo’ avrebbe tratto i princìpi
per la sua impresa” (M. Centanni, Misteri pagani nel tempio
malatestiano, in Sul ritorno di Pletone, cit., p. 51)
Cfr. utilmente il saggio cit. di M. Centanni, pp. 47-80. Su internet
v. M. Neri, Simbolo e simboli nel tempio malatestiano, http://www.ritosimbolico.net/studi1/studi1_02.html.
Matteo de’ Pasti è anche l’autore della medaglia
raffigurante l’emblema (l’occhio alato) col motto (QVID
TVM) dell’Alberti. Su di essa, cfr. E. Wind, Misteri pagani
nel Rinascimento, tr. it., nuova ed. riv., Milano 1985, p. 283 e
sgg.
Può interessare il fatto che Pio II chiamò il cardinale
Niccolò Cusano a istruire il processo in contumacia (v. M.
Centanni, saggio cit., p. 52, n. 12).
Tale rapporto è stato interpretato nel senso di una filiazione
dell’Italia dalla Grecia da F. Masai, Pléthon et le
platonisme de Mistra, Paris 1956, pp. 347-348, il che può
essere accettato solo con riferimento agli elementi platonico-procliano-giulianei
delle confraternite italiane, in ambito accademico-romano facendosi
invece valere la centralità della religio nazionale. Sui
limiti da dare all’influenza pletoniana in Italia, cfr. G.
D’Uva, La Tradizione Italica, in “Politica Romana”
n° 5/1998-1999, pp. 106-125, v. p. 125.
M. Bona, Lievitante atmosfera del Malatestiano, ne “Il Sole-24
Ore”, 13 sett. 1998.
Ma sulla celebrazione pagana del 21 aprile presso la stessa Accademia
ancora negli anni Ottanta del Quattrocento, cfr. Il “Carmen
in Romae urbis genethliacon” di Domenico Palladio Sorano in
“Politica Romana” n° 6/2000-2004, pp. 23-30.
Sulla ripetuta presenza, accertata o plausibile, dell’Alberti
ad Albano, Nemi, Anzio e Nettuno negli anni Sessanta del Quattrocento,
e in occasione delle “gite turistiche” di personaggi
come Francesco Gonzaga o Pio II, cfr. S. Borsi, op. cit., p. 114
e sgg.
Sui rapporti dell’Alberti con l’ambiente fiorentino
e i problemi impliciti nel racconto di Rucellai, cfr. S. Borsi,
op. cit., parte II: Tra Roma e Firenze: antico e non solo.
A.Tartaro et Alii (a cura di), Letteratura Italiana Calderini, Bologna
1977, p. V/58. Il Paradiso degli Alberti era la villa fiorentina
della famiglia del Nostro. Così s’intitola anche un
romanzo quattrocentesco del notaio pratese Giovanni Gherardi.
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