Sede
del Convegno: Sala del Giudizio — Museo Comunale di Rimini - via
Tonini 1, angolo Piazza Ferrari - Rimini
Comitato
scientifico: Bruno Berni, Antonio Calderisi, Giovanni Cecconi, Vinicio
Bizzarri
Il
Convegno di studi beneficia della collaborazione degli Assessorati alla
Cultura del Comune e della Provincia di Rimini. Qui di seguito si propone
la relazione descrittiva presentata dal circolo Culturale "Giovanni
Venerucci" ai due Enti, che illustra motivazioni, finalità e
contenuti della giornata di studi.
Che
l’iconografia del Tempio celi significati arcani noti solo alla
stretta cerchia della corte malatestiana fu rivelato da Roberto Valturio,
amico e consigliere di Sigismondo, che in un famoso passo del De Re
Militari (XII, 13) allude a "simboli tratti dai più occulti
penetrali della filosofia e altrettanto atti ad attrarre fortemente i
dotti quanto a permanere nascosti al volgo".
Brano
– dicono i moderni critici – "famoso e citatissimo da quanti
sostengono che il tempio celi significati criptici ed arcani".
A
questo proposito, crediamo non sia privo d’interesse – a riprova
dell’interpretazione esoterica del Tempio – notare come le parole di
Valturio siano stupendamente coincidenti con quelle di Geber o Jabir ibn
Hayyân, scrittore arabo dell’VIII secolo, sufi ed alchimista, che
formulò la prima sintesi della dottrina alchemica nel trattato,
tradotto in latino nel XIII secolo, Summa perfectionis magisterii in
sua natura, in cui dichiara: "Non bisogna esprimere il
nostro magistero in termini del tutto oscuri, ma nemmeno con un’evidenza
che lo renda comprensibile a tutti. Da parte mia lo insegnerò in modo
tale che nulla ne sia nascosto ai saggi, pur senza cessare di essere
oscuro agli spiriti mediocri. Quanto agli stupidi e ai folli, non
potranno capirci niente…". Un secolo dopo la prima
inaugurazione del Tempio Natale Conti nel suo manuale Mithologiae,
pubblicato da Aldo Manunzio ancora scriverà: "quod omnia
philosophorum dogmata sub fabulis contineantur (sotto la specie dei miti
sono contenuti tutti i dogmi dei filosofi)". Per Conti i miti "partim
res naturae occultas habent, partim mores informant (in parte
racchiudono i segreti della natura, in parte educano alle virtù),
con ciò concludendo che conoscenza della natura e spirito dei retti
costumi sono "sub fabulis integumentis occultata (occultati
sotto l’integumento dei miti)". E ancora nello stesso periodo
un iniziato, anch’egli ovviamente sospettato di eresia, come Rabelais
nel Gargantua dice a proposito dei misteri di certe sculture
sacre che esse "intenderà solo chi comprenda le virtù, il
carattere e la natura delle cose raffigurate con esse".
Già
Mario Praz notava come l’emblematica, diremmo meglio noi il
simbolismo, persegua due fini contraddittori: da una parte mira a
costruire un sistema espressivo esoterico, e perciò chiuso ai profani,
ma dall’altra si propone uno scopo didattico, proponendosi quindi l’ambizione
di essere allo stesso tempo un linguaggio ermetico e un linguaggio
accessibile a quanti dovessero mostrare le "qualificazioni"
per accedervi.
A
tutt’oggi il simbolismo del Tempio Malatestiano rimane ancora
misterioso, anche se certamente nasconde dei significati precisi, come
scrisse Valturio.
Il
primo a tentare una lettura esoterica e diciamo pure massonica dell’apparato
decorativo del Tempio fu nel 1928 Giuseppe Del Piano (1874-1930),
chimico riminese, proprietario di un fiorente laboratorio farmaceutico.
A distanza di settant’anni il suo Enigma filosofico del Tempio
Malatestiano è tuttora un modo stimolante di leggere uno dei più
inconsueti e straordinari monumenti architettonici del nostro Paese.
Afferma in esso Del Piano che si tratta di un "compito piuttosto
difficile, inquantoché l’argomento, più che all’ordinaria
comprensione del cervello, si rivolge alle facoltà superiori dello
Spirito e specialmente all’intuizione". Per Del Piano il
soggetto della decorazione è "la storia immortale della
religiosità umana", storia che sarebbe illustrata nelle sue
tappe fondamentali, le dottrine esoteriche dell’Egitto, della Caldea,
della Giudea, dell’Etruria nelle varie cappelle, e ciò coincide con
il pensiero di Giorgio Gemisto Pletone.
L’unico
altro importante tentativo di interpretazione della struttura
mitico-simbolica sottesa al monumento elaborato dalla corte malatestiana
risale agli anni cinquanta ed è di Charles Mitchell, uno studioso del
Warburg Institute: Condotta sulle linee dell’insegnamento ermetico, è
basata su alcuni testi di Macrobio, erudito neoplatonico del IV secolo
d.C.. Tra le fonti letterarie, ispiratrici dell’apparato del Tempio,
Mitchell ritiene che vadano rinvenute, oltre che nelle opere del citato
Macrobio, anche in quelle di Platone, Porfirio, Giamblico e dello stesso
Gemisto Pletone. Le varie parti, ispirate al tema solare, avrebbero
dovuto vedere, a conclusione dell’edificio, al centro della grande
rotonda cupolata, un occhio aperto al sommo della volta.
Entrambe
le interpretazioni, come pure quelle vagamente citate en passant
e attribuite in talune vecchie guide turistiche di Rimini al
giornalista, e Maestro Massone - Guido Nozzoli che lo definisce "un
tempio d’amore alchemico", sono sbrigativamente, e
talora con un certo imbarazzo, tacciate dalla moderna contemporanea
critica come spericolate e selvagge fantasie iconografiche, con totale
rifiuto della concezione esoterica, a conferma dell’oscurità del
simbolo per lo spirito mediocre del nostro tempo. A conferma quindi di
quella mentalità moderna di porre tutto alla portata di tutti (una vera
e propria volgarizzazione nel senso valturiano e gerberico, come se
democrazia fosse sinonimo di sapienza). La moderna critica si ferma ad
una "lettura attenta, e però non troppo fantasiosa"
degli aspetti decorativi del Tempio, lettura che non porta, in
definitiva, a nessuna superiore conoscenza, tendente a negare tutto ciò
che la supera e soffocando ogni possibilità riferentesi ad un campo
più elevato. Questo imbarazzo, quando non addirittura odio e ostilità,
verso il mistero, il segreto, l’esoterismo, appaiono come la fantasia
di supposti "privilegi", istituiti a vantaggio di qualcuno, e
ostinatamente la mentalità moderna nega qualsiasi superiorità in
spregio a tutto ciò che va al di là del livello "medio" e si
discosta dall’uniformità. In realtà, come la tradizione insegna, le
verità di un cert’ordine, per loro stessa natura, sono comprensibili
solo per chi è qualificato a capirle, mentre per altri, come abbiamo
visto, restano impenetrabili.
Pesa
su questa impostazione della critica moderna, come un macigno, l’estetica
crociana. Vogliamo ricordare cosa scrisse Benedetto Croce, al fine di
comprendere meglio i suoi contemporanei epigoni? Scrisse che "decorazione
vale semplicemente arte" e che "anche nei grandi cicli
profani, tutti giuochi, danze e idilli e trionfi bacchici, che paiono
volere soltanto lusingare i sensi e rapire l’immaginazione"
il cercare in essi intenzioni e significati riposti "alimento
allo spirito, che solo la nostra indifferenza in proposito o la nostra
ignoranza impedisce di ricercare e scoprire" potrà al massimo
far scoprire la chiave astrologica di quella determinata opera d’arte.
Né il tetragono Croce né i suoi saldi epigoni si fanno scalfire dalle
parole di Roberto Valturio o dalla tradizione che vuole che in un’opera
d’arte vi sia una lettura dei simboli. L’attenzione che vi era
allora al contenuto e all’allegoria dei simboli secondo Croce, infatti
"non conferma niente, giacché non è da ammettere il principio
che un critico contemporaneo giudichi meglio di un critico posteriore,
come non è da ammettere l’inverso…dividendosi i critici non in
contemporanei e posteriori, ma unicamente intendenti o no di arte,
sensibili o no al bello". E Croce appare soprattutto
infastidito da quanti hanno "fame di allegorie e di ritrovamenti
del significato", irridendo gli stessi come "spiriti
bizzarri e vanesi che par che immaginino che, oltre la storia visibile,
ce ne sia un’altra invisibile, la quale ad essi è o sarà concesso
svelare con lo stabilire sottili confronti, da loro immaginati, tra i
fatti: sicché i loro racconti storici prendono aria di scoperte di
cospirazioni e di intrighi ed essi di abilissimi investigatori o
piuttosto poliziotti.". L’avversione di Croce è soprattutto
diretta verso Warburg, il fondatore del maggior istituto di studi
rinascimentali, al quale, tra l’altro, Charles Mitchell appartiene.
Aby
Warburg, infatti, partendo dalla premessa dell’origine dell’opera d’arte
come cooperazione tra committente e artista e quindi frutto di un’azione
reciproca, in assenza di una documentazione storica su questo fecondo
scambio era giunto a questa conclusione: "Dello scambio di
sentimenti o pareri fra committente e artista esecutore solo di rado
qualcosa giunge al mondo esterno…sottraendosi in tal modo perlopiù
alla consapevolezza personale e storica. Bisognerà quindi, giacché le
deposizioni di testimoni oculari sono così difficilmente reperibili,
convincere di colpevolezza il pubblico coinvolgendolo nell’indagine
mediante prove indiziarie.".
Secondo
l’imperante sistema crociano ogni opera che minacci di stroncare tale
impostazione generale viene accuratamente occultata.
Dal
nostro punto di vista, che riteniamo legittimo, se è lecita la libertà
di ricerca, al contrario anche il Tempio si rifà a quella Tradizione
che è di per sé affine e compartecipe dell’esoterismo, in quanto
tende a rimanere immutata nel corso dei secoli, quanto meno nella scelta
del repertorio simbolico, senza farsi condizionare dai mutamenti di
gusto artistico che avvengono d’epoca in epoca e nelle diversità da
luogo a luogo, a riprova della sua primordialità sovrumana nel tempo e
della sua circolarità diffusa nello spazio.
I
simboli non sono dunque rivolti a chiunque, ma destinati soltanto a
coloro che vogliano risvegliare le idee assopite nel nostro intelletto.
Diversi perciò dalle parole, dalle formule razionali, aristoteliche
appunto, di cui non si vuole contestare l’utilità pratica e
scientifica (anche se la fisica, oggi, se vuole tentare di spiegare le
verità ultime ed i principi primi non può non rifarsi alle dottrine
tradizionali, quali il taoismo ed il pitagorismo e platonismo dei quali
ultimi l’iconografia del Tempio riminese è particolarmente permeato).
Quest’ultime, le parole, le formule razionali, corrispondono ad un
pensiero rigido, bloccato, artificialmente delimitato, tanto da apparire
come morto rispetto al pensiero indefinito, complesso e mobile che si
riflette nei simboli, la cui conoscenza è per sua natura incomunicabile
Va
segnalato come proprio recentemente, il 13 settembre 1998, un servizio
giornalistico nel supplemento domenicale del più autorevole quotidiano
economico d’Italia Il Sole 24 ORE, dedicato al Tempio, faccia
arrivare l’autore, Marco Bona Castellotti, a concludere che "prende
consistenza la concezione del Tempio Malatestiano, platonizzante e
ermetica, intessuta di esoterismo e non estranea a influenze
orientali". Un vero squarcio di luce nell’oscurata mentalità
moderna.
Quel
che è certo è che, dopo gli studiosi in precedenza citati, si
ricomincia a parlare del Tempio in un’ottica differente da quella alla
quale si è abituati in questi ultimi decenni ed inizia a farsi strada
in quanti sono ancora dotati di coraggiosa intelligenza e di perspicacia
il bisogno di altri modi di conoscenza e di altri sistemi di
interpretazione da quelli consueti nei quali si riscontrano molte
banalità e molti luoghi comuni interpretativi.
Occorre
infatti chiarire subito che l’interpretazione dei simboli tradizionali
può portare assai fuori strada se non si comprende bene la loro
essenziale proposta di modi d’essere. Un’interpretazione basata
esclusivamente su analogie o allegorie non è di solito adeguata, mentre
correlazioni ed intuizioni possono essere di maggiore aiuto nel compito
di penetrazione del segreto contenuto nei simboli.
Non
c’è bisogno di scomodare Fulcanelli che ne "Il Mistero delle
Cattedrali" afferma che esse furono "costruite dai
Frimasons per assicurare la trasmissione dei simboli della dottrina
ermetica". Persino nella letteratura moderna più corriva –
quella per intenderci dei best-sellers dedicati ai presunti misteri -,
oramai, ci s’imbatte spesso nella teoria secondo cui le chiese
medioevali erano gli equivalenti architettonici, scultorei e pittorici
di una summa teologica e filosofale, simbolica
rappresentazione visibile di Verità eterne ed immateriali a gloria dell’Intelligenza
costruttrice dell’Universo. Nel citato filone sono sempre di più i
ricercatori ed autori, da Christian Jacq a Graham Hancock, da
Christopher Knigt e Robert Lomas a Michael Baigent e Richard Leigh fino
a Lynn Picknett e Clive Prince, i quali pur pervenendo a risultati
diversi e a congetture contrastanti, sono però accomunati da due
risultati convergenti: l’origine egiziana e primordiale dell’esoterismo
e l’idea che molti gioielli dell’architettura religiosa cristiana
fossero punti di riferimento per gruppi le cui credenze non erano tanto
ortodosse quanto la storia ufficiale vorrebbe farci credere.
Nel
nostro caso va inoltre ricordato che Rimini era un’importante stazione
dei Templari che qui scomparvero in maniera incruenta, differentemente
da quanto accadde in Francia. E’ noto come i Templari, nella loro
breve parabola di vita, promossero la costruzione di cattedrali, tra cui
quella di Chartres, e favorirono la costituzione di corporazioni di
costruttori e muratori, che facevano parte dell’Ordine cavalleresco,
godendone dei privilegi, tra cui l’esenzione dai tributi.
A
Rimini, ben molti anni prima della costituzione dell’accademia
fiorentina neoplatonica di Careggi dei Medici, esisteva, fin dal 1406,
un’accademia esoterica, fondata da Carlo Malatesta, sollecito zio di
Sigismondo, e che fu pertanto la prima Accademia italiana, sebbene nell’attuale
storiografia se ne sia persa la memoria. Ristretta inizialmente alla
sola poesia, così com’era uso in ambito cortese, ebbe tra i primi
adepti Jacopo degli Allegretti, precettore di Carlo. Fuggito da Forlì
come guelfo, questi era poeta, medico ed astrologo. La connessione non
deve sbalordire, perché come giustamente diceva Manilio: "sono
medici di nome e non di fatto quelli che ignorano l’astrologia"
e riconfermava Marsilio Ficino: "se ti preme la vita prendi medicine
confermate dai cieli". Di lui ci riferisce Coluccio Salutati,
maestro di Leonardo Bruni e suo predecessore nella prima cancelleria di
Firenze. Nel suo operoso epistolario scriveva a Jacopo sui suoi
pronostici determinati dall’osservazione degli astri: "lascia
al genere umano il libero arbitrio, se cercherai di toglierlo, toglierai
insieme l’umano e il divino". E’ la stessa accusa di rigido
determinismo, di ineluttabilità del fato che sarà più tardi recata a
Pletone, che cosi vedeva l’eterno ritorno dei ritmi ciclici: "I
periodi del tempo recano e sempre recheranno, in epoche fisse, identiche
vite e identiche azioni, in modo che niente e mai capitato di veramente
nuovo e niente capita che non sia già accaduto, e che non debba
prodursi di nuovo un giorno[…] Né v’è alcun modo di sfuggire e
sottrarsi a ciò che Zeus ha deciso dall’eternità e che il Fato ha
fissato per sempre". Gli succedette l’allievo di Petrarca
Giovanni Malpaghini da Ravenna, che fu maestro, come Manuele Crisolora e
Coluccio Salutati del Bruni. L’Accademia riminese operava sotto il
nome di Parnaso.
Veder
chiaro in questo sottile reticolo dalle cangianti sfumature il dilatarsi
dei rapporti, anche vari e mutevoli, non sempre è facile. Segno di
riconoscimento, ad esempio, di questa appartenenza esoterica è certo il
gesto di Sigismondo, fresco di scomunica, che durante la crociata in
Morea trafugò ai Turchi le spoglie mortali di Giorgio Gemisto Pletone,
che volle inumare in una delle arche del Tempio riminese. Pletone fu l’ispiratore
dell’accademia fiorentina voluta da Cosimo de Medici, come ci
riferisce lo stesso Ficino. Maestro di iniziati Gemisto sovrintendeva un’accademia
esoterica a Mistrà nel Despotato di Morea, con il quale i Malatesta
avevano frequenti relazioni per motivi di famiglia ed
artistico-filosofici.
Già
François Masai che si è occupato dello speciale platonismo di Pletone
si chiedeva se queste Accademie "non fossero, in qualche modo,
delle filiali di quelle di Mistrà". Chi conosce il
funzionamento delle società esoteriche e delle trasmissioni iniziatiche,
che pure Pletone dispensava a Mistrà e che parrebbe strano non avesse
dispensato nel suo soggiorno italiano in occasione del Concilio di
Ferrara-Firenze, non può che dare una risposta affermativa. "Chi
ben conosce la storia degli Ordini segreti sa che difficilmente se ne
può determinare l’estensione; ed è nota la loro feracità, per cui
formano rami e colonie; e qualora vogliasi seguirne le tracce, ci si
perde in un labirinto". Così scriveva nel 1939 Ernst Jünger.
Per
altro le accademie rinascimentali risultano assai interessanti per le
analogie che presentano con successive istituzioni esoteriche inglesi (o
forse per le "regole" che trasferirono ad essa). I loro
statuti prevedevano un presidente (sappiamo che quella di Rimini ai
tempi di Sigismondo era presieduta da lui medesimo e gli adepti qui lo
chiamavano "rex"), un numero determinato di membri,
tornate periodiche ed un programma da svolgere. Le adunanze dei dotti
che seguirono si organizzarono elaborando propri statuti (una delle
prime ad agire in questo senso fu l’Accademia platonica di Firenze) e
propri regolamenti; in taluni casi divennero vere e proprie corporazioni
scientifiche e letterarie. L’Italia era la terra del Rinascimento, e
le sue nuove dottrine giunsero ad Oxford, nel corso degli ultimi due
decenni del secolo XV.
A
Rimini l’incontro tra iniziati dell’Accademia pletonica e della più
importante Corporazione di mestiere dell’epoca, i maestri comacini e
gli altri maestri muratori intenti all’elevazione del Tempio, l’incontro
dunque tra elemento prevalentemente intellettuale e spirituale,
speculativo, ed elemento materiale operativo ha portato a rinsaldare
componenti verosimilmente fuse agli inizi dell’Arte
Quel
che è certo è che nella scuola iniziatica che faceva capo all’ermetismo
di Gemisto Pletone e successivamente dei suoi allievi Marsilio Ficino e
Pico della Mirandola, il simbolo veniva utilizzato come immagine sacra
che serviva da supporto ad una serie di pratiche mentali, come ponte per
passare da uno stato di coscienza all’altro, come via d’accesso ad
un preciso stato psichico, ad una "visione lucida", frutto di
particolari tecniche affini a quella che oggi è conosciuta come
"meditazione trascendentale". Il Tempio malatestiano è dunque
un "laboratorio" attrezzato per la meditazione.
In
realtà, distano ormai decenni gli unici tentativi di un’interpretazione
esoterica del Tempi: quella di Giuseppe Del Piano nel suo Enigma risale
al 1928, mentre le conferenze di Charles Mitchell datano al 1951 e al
1968. Né vanno dimenticate nel 1959 le annotazioni di André Chastel in
Art et Humanisme, né gli interrogativi sull’interpretazione
pagana del Tempio di Franco Gaeta nel suo saggio La
"leggenda" di Sigismondo Malatesta del 1978. Da allora
ulteriori studi in tal senso hanno toccato tangenzialmente il maggior
monumento riminese. Bastino qui i nomi del grandissimo poeta Ezra Pound,
quelli di Frances A. Yates ed Edgar Wind – entrambi del Warburg
Institute come Mitchell – e quelli dei nostri Giovanni Gentile,
Eugenio Garin ed Elémire Zolla.
Dal
suo punto di vista non aveva forse torto il papa Pio II - che scomunicò
Sigismondo - quando con un autorevole giudizio definì l'edificio "pieno
d'opere gentili al punto che sembra meno una chiesa che non il tempio di
infedeli adoratori del demonio". Il giudizio del pontefice su
Sigismondo e sul suo Tempio è da sempre fonte di un certo imbarazzo
nella gerarchia cattolica.
Eppure
lo stesso Papa, che combatté Sigismondo, lo scomunicò e lo fece
bruciare in effigie, scrisse di lui: "Sigismondo conosceva le
storie ed era molto innanzi nella filosofia, e sembrava nato a tutto
ciò che intraprendeva".
Le
definizioni, volta a volta, di tempio pagano, ellenico, eretico, eroico,
erotico,esotico ed esoterico certo appaiono un po’ strane per una
chiesa recentemente consacrata a cattedrale e c’è chi, come lo
studioso Giovanni Rimondini, nella pubblicistica locale, lo ha
recentemente osservato con la sua consueta ruvida ironia, arrivando a
provocanti proposte di musealizzazione del Tempio e di nuova e altra
costruzione di cattedrale.
Non
meraviglia trovare un umanista del calibro di Pio II tanto accecato
dalla ira verso Sigismondo quanto dalla cupidigia verso le terre
malatestiane che voleva affidare ad un nipote, nella sua caterva di
mirabolanti accuse in patente contraddizione. Il papa Piccolomini fu
autore, quand’era cardinale, di una tra le commedie più scollacciate,
volgari e licenziose del Quattrocento, la Chrysis, e prima di
prendere i voti, che prese quando l’età e la cagionevole salute gli
resero la castità un obbligo, era tutt’altro che insensibile ai
piaceri di Venere. Che nella cultura degli uomini di Chiesa del
Quattrocento vi fosse più di una contraddizione è certo. Pio II è
ancora, al secolo, quell’Enea Silvio Piccolomini, archeologo e
letterato, la cui prosa elegante è infiorata di reminiscenze
mitologiche. Che passa il tempo a giocare con i Tarocchi del Mantegna,
nelle cui lamine una serie raffigura gli dei planetari. Che all’occorrenza
difende le Metamorfosi di Ovidio. Che infine, quando deciderà di
trasformare il suo paese natale in Valdorcia, Corsignano, in una
residenza ideale, degna di un pontefice, che sarà chiamata Pienza, non
troverà di meglio che proporre nel suo duomo una rielaborazione della
facciata del Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti.
E,
d’altra parte, tali condizionamenti, quello crociano da un lato e
quello cattolico dall’altro neganti l’uno e l’altro significati
esoterici e pagani all’interno del Tempio dei Malatesta, riescono
persino a condurre a umoristici, quanto involontari – per carenza di
conoscenza – ossimori, laddove si afferma, ad esempio, che la Cappella
dei Pianeti come rappresentazione del cosmo sia "assolutamente
priva di sottintesi esoterici". Pari a qualche bello spirito che
affermasse che il sole è del tutto privo di luce. L’esoterista, ma
anche qualsiasi esoteriologo, sa invece che l’astrologia tradizionale
è ben altro da quella "giudiziaria" (così in voga in
ambienti occultisti come pure nella più volgare diffusione dell’oroscopo
presente con uno spazio in pressoché ogni mass-media). Si tratta, al
contrario, di una scienza appartenente in maniera integrante al dominio
della "Scienza sacra", guénonianamente intesa.
La
stessa conferenza di Mina Gregori che ha aperto il programma di
celebrazioni anniversarie del Tempio Malatestiano che ha illustrato, con
dovizia di particolari, i contenuti ellenici, solari e implicitamente
pitagorici (sin nelle iscrizioni greche e latine basate sulla
"proporzione aurea") sono cadute in una platea ingenua e
provinciale o quantomeno non attenta alle connotazioni di una religione
solare platonica implicita nel monumento riminese.
Resta
il fatto che un culto per il sole presente nel Tempio non dovrebbe
scandalizzare nessuno dotato di una vera e reale religiosità. Lo stesso
Dante, appartenente alle associazioni iniziatiche della Fede Santa e dei
Fedeli d’Amore, un terz’ordine di filiazione templare, giustifica l’adorazione
del sole nel Convivio (III, XII, 7), non il sole corporale e
sensibile ma un sole simbolico e spirituale: "Nullo sensibile in
tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l
sole". Gli stessi francescani avranno tenuto ben presente le
parole del Cantico delle creature: "Laudato si, mi
signore, cum tucte le sue creature, specialmente messer lo frate sole,
lo quale jorna, et illumini per lui; et ellu è bellu e radiante cum
grande splendore; de Te, Altissimo porta significatione". Quei
francescani, novelli inquisitori, che secondo qualche storico
contemporaneo avrebbero dovuto controllare eventuali cadute nel
paganesimo durante i lavori del Tempio, per non parlare del fatto di un
Sigismondo ben generoso di donazioni verso gli ordini religiosi ma
altrettanto terribile verso chi intralciava i suoi audaci piani,
specialmente se l’intralcio proveniva da quella Chiesa verso la quale
non nascondeva idee hussite (altra eresia!) secondo le quali l’istituzione
di Pietro doveva rinunciare al potere temporale per dedicarsi
interamente e solamente all’esercizio spirituale.
Questa
lunga premessa spiega già, in parte, motivi e temi che saranno
esplorati nel convegno di studi. Convegno che non può e non vuole
naturalmente essere concorrente ai molteplici eventi culturali promossi
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, dal 21 settembre 2000 e
fino al 15 giugno 2001, sotto i titoli RIMINI: LA CITTA’ INTORNO AL
SUO TEMPIO e IL POTERE LE ARTI LA GUERRA: LO SPLENDORE DEI
MALATESTA. Non abbiamo ovviamente la forza economica per proporre
una così interessante e ricca messe di eventi, ma vogliamo introdurre
un po’ di incongruità nell’ordine del giorno degli eventi proposti,
in altre parole attirare l’attenzione su una serie di elementi, che
per le ragioni sopra esposte, difficilmente apriranno varchi o
troveranno posto nella sintesi della configurazione proposta sull’epoca
dello splendore malatestiano. Inserire tra le maglie di un ordine
consueto, una manifestazione che appartiene ad altre rubriche o, in
altre parole, introdurre in un pensiero rigido, bloccato,
artificialmente delimitato, tanto da apparire come morto rispetto al
pensiero indefinito, complesso e mobile che si riflette nei simboli, è
il miglior segno di rispetto verso la libertà di ricerca. Come insegna
la storiografia, la vera fortuna di una ricerca si ha quando i suoi
risultati non vengono accettati in blocco, ma continuati e ridiscussi.
Se ciò non accade è perché domina il provincialismo non solo
scientifico, ma morale.
In
particolare è proprio nel campo del simbolo che, quantomeno in
Occidente, si è compiuto un distacco da una tradizione ultramillenaria
con il risultato che tutta una serie di contenuti, di preponderante e
universale importanza, sono venuti meno o restano incompresi. Ma oggi ci
si comincia a chiedere se il vero nocciolo della rivoluzione dell’arte
moderna – da un lato il disinteresse dei critici per il significato
dell’opera d’arte e dall’altro il disinteresse degli artisti per
il soggetto ed il motivo – non sia tanto la rinuncia alla
figuratività per l’astrazione, ma piuttosto, per quanto in precedenza
si descriveva, il disprezzo e l’oblio per questi contenuti che
animavano pressoché ogni forma della realtà dandole una quarta
dimensione, un’efficacia e profondità magica.
Per
quanto riguarda il concerto, previsto a conclusione della
manifestazione, sarà basato sulle musiche rinascimentali del primo,
geniale rappresentante della musica fiamminga quattrocentesca, Guillaume
Dufay. Il "Machaut del XV secolo", come venne
soprannominato, nacque all’inizio del secolo nella zona di confine fra
la Francia e i Paesi Bassi, probabilmente a Cambrai, dove lo troviamo
fanciullo, cantore nella Cattedrale. Intorno al 1420 si recò in Italia,
e fu al servizio dei Malatesta a Rimini e a Pesaro, per poi passare alla
Cappella papale a Roma, a Bologna, a Firenze e infine alla corte del
duca Ludovico di Savoia. Durante il suo soggiorno italiano - decisivo
per la formazione dell’artista, fra i venti e i trentacinque anni - il
Dufay è nel 1436 a Firenze, per la consacrazione del Duomo del
Brunelleschi, e qui, per l’occasione, compone il Mottetto Nuper
rosarum Jlotes. La più sorprendente affermazione della personalità
di Dufay sta nella limpida struttura della sua polifonia. L’arte del
Brunelleschi dovette operare fecondamente sulla formazione musicale del
Dufay. Ammirato dallo splendido senso delle proporzioni tipico dell’arte
italiana del Quattrocento, egli seppe innestare nella composizione
musicale un nuovo senso della misura che equilibrava l’elaborata e
complessa tecnica trecentesca.
Si
è ipotizzato d’inserire tale concerto, da noi ideato, in seno alla
rassegna NOTTI MALATESTIANE con la direzione artistica del
Maestro Manlio Benzi.