A
RICORDO DI...
ELÉMIRE
ZOLLA
Il
Sacro e la tradizione
perenne contro i falsi miti del progresso e
dello pseudo-illuminismo
di
Vittorio Vanni
Giovedì 30 maggio alle ore 17 è deceduto Elémire Zolla, nella Montepulciano
dove aveva voluto passare gli ultimi anni della sua vita. Nato a Torino
il 8 luglio 1926, fu allievo di Mario Praz, fino a sostituirlo, alla
sua morte, nella cattedra di letteratura anglo-americana della Sapienza
di Roma. Studioso insigne della tradizione, i suoi interessi si volsero
in questo vastissimo campo, in particolare sul misticismo, la magia,
l'alchimia ed il Sufismo, in cui intravedeva una persistenza, rara
nell'esoterismo, della tradizione orale ed elitaria, l'unica che non
produca degenerazioni nei concetti iniziatici. Critico del mondo moderno,
sulla scia dei grandi tradizionalisti quali Guénon, Evola, Coomaraswamy,
Schuon, Eliade ecc., nel 1971 quando al vecchio mondo immobile ed
obsoleto si credette di poter sostituire paradigmi altrettanto obsoleti
e oscuri, volle scrivere un testo, Che cos'è la tradizione, che differenziasse
ciò che è eterno da cio che è transeunte. La sua opera, profonda ed
inquieta, esplorò culture lontane nello spazio e nel tempo, nella
diffidenza verso un Occidente ed una modernità sempre più lontana
da una spiritualità che - innata nell'uomo - nel nostro ciclo storico,
l'età oscura è negata e sottilmente indirizzata verso degenerazioni
perverse e strumentali. La grande intellettualità di Elemire rimane
nelle sue opere, quella spirituale nel deposito cosmico ed universale
dei Maestri passati. Noi massoni possiamo solo abbassare i nostri
labari abbrunati, con rispetto, riverenza e commozione, verso un testimone
vigile ed un attore importante del tempo dell'attesa, fino a che la
grande rivoluzione solare ritorni al suo punto d'inizio, al momento
eterno dell'oro spirituale.
(da
"Erasmo Notizie" - n. 11 - 15 giugno 2002)
Il
ricordo nel cimitero di Montorio a Montepulciano
Martedi
9 luglio a Montepulciano si è svolto, in forma strettamente privata,
la commemorazione d'Elémire Zolla, da parte della vedova, Maria Grazia
Marchianò, docente di estetica all'Università di Arezzo. Erano presenti
circa cinquanta persone fra amici, discepoli, colleghi, parenti, fra
i più vicini all'insegnamento ed alla personalità del Maestro. Dopo
una lettura di brani dell'opera d'Elémire, riferenti al tema della
scomparsa e dell'insussistenza dell'individuo, la professoressa Marchianò
ha celebrato l'antico rituale induista dei defunti, che prevede tre
suoni cristallini di campanello, tre giri intorno alla salma in senso
orario, tre invocazioni alla pace, fra gli effluvi densi dell'incenso.
Francesca Menchini, suonatrice di flauto, ha suonato alcuni brani
musicali fra cui i temi vivaldiani 1,4,3 dell'opera 8, ed il violinista
girovago Simon Scott alcune arie celtiche. L'offerta di sciarpe votive
al grande tradizionalista, da parte dei discepoli, ha terminato la
cerimonia. In rappresentanza del Grande Oriente erano presenti i Fratelli
Silvio Calzolari e Vittorio Vanni.
Elémire Zolla, studioso della Tradizione
Ad
memoriam
di
Silvio Calzolari*
Quanto
mi sarebbe più gradito parlare ancora oggi con Elémire Zolla anziché
scrivere di lui. Mi è difficile tracciarne un profilo per mantenere
viva nella memoria quella sua immagine così bonaria e, nel contempo,
autorevole e battagliera. Conobbi Elémire diversi anni fa ad un Convegno
d'orientalisti: parlammo di sciamanesimo e di estetica giapponese.
Era un uomo che sapeva cogliere la bellezza delle cose con la fantasia
di un bambino. Era però un logico assoluto. Aveva una mente limpida
ed una volontà di osservare il mondo con una razionalità quasi adamantina.
Con Elémire vinceva sempre la ragione; la profonda cultura ed un atteggiamento
di tolleranza nei confronti degli altri, gli permettevano di enunciare
il suo pensiero con una fermezza lungi da qualsiasi arroganza, mantenendo
il suo spirito aperto alla comprensione di chi per altra cultura ed
altre esperienze, si discostava dalla sua strada. Zolla non era, come
è stato scritto sui giornali nelle settimane dopo la sua morte, un
irrazionalista, un mistico ispirato, era piuttosto un filosofo, un
esoterico ricercatore, teso a trovare una soluzione all'eterno dualismo,
fra ragione e irrazionalità, del pensiero occidentale. Tentava di
superare la polarità dell'essere per tendere alla pura unità e cercava
di dare una risposta a quali rapporti esistono tra religione, mistica
e Tradizione. La ragione arriva al suo limite là dove comincia il
vero Assoluto, e Zolla cercava un accesso razionale alla realtà mistica
e religiosa e pensava di averlo trovato nelle filosofie e religioni
dell'Asia. Ma l'Oriente di Zolla non aveva niente di esotico; anzi
era una chiave di interpretazione (con una trasposizione di punti
di vista) del mondo occidentale con i suoi sogni ed i suoi miti. Zolla
osservava così il mondo e le cose sotto una nuova luce, quasi gli
fosse concesso d'uscire al di là di tutte le culture e le civiltà,
al di là d'ogni "muro delle idee", nell'etere interculturale. Tale
trasposizione agiva in lui come un elettroshock dello spirito, lo
risvegliava dall'assolutismo etnocentrico in cui tendiamo volentieri
a cullarci. Di assoluto, per Elémire c'era soltanto l'uomo. Dalla
tradizione occidentale, Zolla aveva ereditato il rigore, il dubbio
metodico, la vocazione filosofica; ne sono prova alcuni scritti giovanili
come Orrore e Utopia, apparso su "Lo Spettatore Italiano", dove introducendo
in Italia la Scuola filosofica di Francoforte, portò negli ambienti
intellettuali d'allora la sua critica incalzante alla modernità. Zolla
riteneva che l'Illuminismo avesse raggiunto il suo culmine filosofico
e letterario nell'opera del marchese de Sade, e che i totalitarismi
del XX secolo ne fossero il naturale esito politico. Anche alcuni
saggi successivi, come l'Eclisse dell'intellettuale (1959), rimasero
improntati alle tematiche care alla Scuola di Francoforte, con la
sua critica acuta alla civiltà di massa. Ne Le Origini del Trascendentalismo
(1963), si avvicinò invece al demonismo puritano per poi affrontare
i temi della scelta religiosa di Emerson, la fede delle comunità religiose
nella nascente nazione americana, gli influssi di Emanuele Swedenborg
ed il pensiero utopico che porterà alla fondazione delle prime comunità
trascendentaliste. È un libro, a mio avviso, assolutamente necessario
per capire lo sviluppo della Massoneria americana. In seguito Elémire
Zolla si avvicinò alla metafisica, alle "fonti sapienziali extra-storiche".
Lo fece nel 1963 con la monumentale antologia dei Mistici dell'Occidente,
riproposta anche recentemente da Adelphi. Zolla studiava i mistici,
ma si tenne sempre ben lontano dal misticismo, era semmai un monaco,
un indagatore della Sophia perennis, un attento studioso della dimensione
gnostica e spirituale della conoscenza. In questi anni si avvicinò
all'orientalismo, al Sufismo persiano, alla medicina ayurvedica indiana,
all'alchimia del Taoismo cinese, al Buddhismo, al pensiero del Vedanta,
alla sotterranea corrente sciamanica che sembra collegare idealmente
la sapienza occidentale a quella orientale. Nel 1975 uscì il saggio
su Le Meraviglie della Natura, dedicato all'alchimia, dove iniziò
a parlare degli archetipi: "La via dei Nomi di Dio è quella della
scuola gnostica, ma l'alchimia è anche appannaggio della scuola illuminazionista,
che sente gli archetipi come figure senza potenza e senza materia
piuttosto che come Nomi (...). L'alchimista stabilisce un contatto
fra il suo spirito e quello dei metalli grazie all'archetipo che impronta
e una parte del suo spirito e lo spirito del metallo". Sulla dottrina
degli Archetipi tornerà a parlare anche successivamente, negli anni
'80, quando scrisse in inglese il manuale di metafisica Archetypes,
dove affrontò il tema degli archetipi politici "dalla caduta di Troia
agli accordi di Yalta". Il suo concetto d'archetipo era tratto dal
Vedanta e dai commentari del filosofo indiano Shankara, e serviva
per indicare il punto inesteso di mediazione tra l'Uno ed il molteplice.
Insieme ad Aure (1985) e all'Amante Invisibile (1986), Archetipi compone
una trilogia, dove il nostro filosofo espose un vero e proprio sistema
di individuazione delle forze psichiche e cosmiche che reggono e strutturano
la storia dell'uomo. Nel 1989 scrisse anche un saggio sull'Androgino,
l'umana nostalgia dell'interezza; "(...) In una prospettiva metafisica
l'incontro con l'androgino è sempre stato inevitabile. Quando la mente
si innalza al di sopra dei nomi e delle forme, non può che toccare
il punto in cui anche le divisioni sessuali vengono superate". E'
un testo straordinario, che invito alla lettura dei Fratelli Massoni
perché nel nostro Tempio tutta la simbologia sotto la volta a stelle
presenta un aspetto dualistico e tutto indica l'esistenza dei due
poli, positivo e negativo che creano il movimento essenziale ai flni
della manifestazione. L'androgino rappresenta il punto centrale, di
massimo equilibrio, delle due forze che si uniscono nel mondo degli
elementi. Per quattordici anni Elémire Zolla curò la rivista Conoscenza
Religiosa, edita dalla Nuova Italia che cessò la pubblicazione nell'83,
dove accolse saggi di Borges, di Quinzio, di Corbin, di Marius Schneider,
di Mircea Eliade. e molti altri ancora. Si occupò anche di occultismo
e Cabala ebraica, di Sofiologia e di metafisica dell'icona, della
saggezza dei nativi dell'America del nord, di cosmogonia norrena e
di rune anglosassoni. Zolla era ispirato da una voglia insaziabile
di conoscenza percorse tutte le vie del pensiero senza limiti e conformismi.
Era uno spirito libero molto critico nei confronti della modernità
ma anche attentissimo al nuovo mondo della realtà virtuale, che in
qualche modo, collegava alla tradizione della costruzione degli universi
mentali, interiori, della tradizione buddhista (specialmente tibetana).
Fu nemico di ogni ideologia totalitaria, e nonostante il cliché di
uno Zolla reazionario e scrittore di destra, il nostro autore fu piuttosto
un liberale, avverso al fascismo e ad ogni sua derivazione. Fu uno
studioso della Tradizione (si legga il bel saggio del 1971 su Che
cosa è la Tradizione? che destò, alla pubblicazione, gran scandalo).
Fu proprio l'amore per la Tradizione che lo portò lontano ad incontrare
religioni e culti più o meno noti. Già ora, a distanza di poco tempo
dalla scomparsa, ci accorgiamo di quanto fosse importante ed insostituibile
l'opera di Elémire Zolla filosofo eretico e sciamano d'Occidente.
*storico delle religioni e fratello del Grande Oriente d'Italia
(da "Erasmo Notizie" - n. 13/14 - 15-31 luglio 2002)
È
morto ieri nella sua casa di Montepulciano Elémire Zolla, lo studioso
di letteratura angloamericana, narratore, saggista e autorevole conoscitore
di dottrine esoteriche. Era nato a Torino nel 1926, aveva insegnato
prima all'università di Genova e poi in quella di Roma. Vinse il premio
Strega nel 1956 con Minuetto all'inferno. Tra le sue opere più importanti
Eclissi dell'intellettuale, I letterati e lo sciamano, Uscite dal
mondo, I mistici dell'Occidente. Per ottobre è prevista presso l'editore
Adelphi la pubblicazione del suo nuovo libro: Discesa agli inferi
e resurrezione. Zolla è stato uno degli ultimi difensori della tradizione
contro il mondo moderno. Di qui l'attenzione per l'Oriente.
E' MORTO ELEMIRE ZOLLA
L'ULTIMO DEGLI ESOTERICI
di Umberto Galimberti
Elémire Zolla era un testimone di quel "sapere tradizionale" di cui
l'umanità si è alimentata prima che Platone inventasse per l'Occidente
la logica, fissando così le basi discorsive con cui ancora oggi noi
ci intendiamo.
La logica è una connessione rigorosa di concetti che nominano l'identità
di una cosa a cui vieta di sconfinare nei significati adiacenti e
allusivi, come invece fanno i bambini quando passano da un significato
all'altro, i folli quando fanno coesistere le contraddizioni, i poeti
quando esplorano gli sconfinamenti delle parole.
Ma
la logica non è la verità, è solo uno strumento per intenderci, per
questo Aristotele la chiama Organon (che significa strumento). Friedrich
Nietzsche era addirittura persuaso che non ci saremmo potuti mai incamminare
sui sentieri della verità se prima non ci fossimo liberati di "quella
servetta che è la grammatica", parente stretta della logica. Martin
Heidegger, dal canto suo, lamentava addirittura la "povertà del nostro
tempo", dovuta al fatto che ormai da duemila anni l'Occidente dispone
unicamente di un pensiero capace solo di far calcoli (logici) e assolutamente
incapace di pensare. Per questo tenta l'impresa di un nuovo linguaggio,
e lo va a cercare là "dove la parola manca".
Su un altro versante Sigmund Freud si era persuaso che l'Io, sede
della razionalità logica, "non fosse padrone in casa propria", e significati
ben più potenti si agitassero sotto l'apparente quiete della coerenza
razionale. Chiamò questo sottosuolo "inconscio" e "simbolico" il suo
linguaggio.
Poi vennero gli psicoanalisti a tentare quell'impresa impossibile
che era la ricerca del "significato dei simboli", ignari che i simboli
non significano, perché come figure pre-logiche, sfuggono allo schema
concettuale che costituisce la violenza prima di ogni commento. I
simboli non "significano" perché non sono "significati" ma "forze".
I simboli "agiscono".
Elémire
Zolla, al pari di Henry Corbin, René Guenon, Amanda Coomarswamy, di
cui Adelphi ha pubblicato le opere più significative, dedicò l'intera
sua vita alla ricerca dell'"azione simbolica" nella storia, quella
corrente sotterranea che passa inosservata a quanti, catturati dalle
vicende quotidiane che sono sotto gli occhi di tutti, ignorano ciò
che determina queste vicende, come le acque sotterranee determinano
la conformazione della superficie.
Cogliere questa sotterranea "agitazione", che antecede e determina
le nostre "cogitazioni" significa passare dall'esteriorità del sapere
"essoterico", di cui si alimentano tutti i nostri discorsi, alla radice
profonda e perciò nascosta del sapere "esoterico", accessibile solo
a quanti non si lasciano distrarre dalla successione degli eventi
che in superficie animano le divisioni tra gli uomini.
Scendere
nell'esoterico, dove il regime discorsivo è regolato dal simbolo che
connette i significati (sum-ballein), a differenza dei concetti che
li separano e li disgiungono (dia-ballein), significa inoltrarsi lungo
un sentiero che porta in un orizzonte, silente ma potente, che sta
al di qua della parola e delle sue possibili interpretazioni. Il passaggio
è rischioso e può dar origine a tutto quel mondo bugiardo che, maneggiando
con disinvoltura l'inaccessibile, può dar luogo a tutti gli imbrogli
che, dalla P2 alla stregoneria dei maghi, mette in scena, dietro le
quinte di un sipario ben chiuso, tutti i cascami della storia.
Oppure
- e questa è stata la via ardua percorsa da Zolla - inoltrarsi nell'esoterico
può significare voler reperire, al di sotto delle differenze, quelle
metafore di base che accomunano Oriente e Occidente, Nord e Sud del
mondo, perché unica è l'umanità.
E,
come sul piano biologico la genetica riesce a parlarci di un'unità
del genere (umano), così sul piano culturale potrebbero ravvisarsi
percorsi comuni che hanno consentito all'umanità di emanciparsi dalla
sua infanzia animale e di ritrovarsi oggi in un comune sentiero, al
di là delle guerre, al di là degli odi e delle enfatizzate differenze.
Non invito nessuno a percorrere i sentieri di Zolla, di Corbin, di
Guenon, di Coomaraswamy. Sono troppo rischiosi per i più. E la ricerca
"segreta" finirebbe per arrestarsi alla segretezza del potere politico
o sacerdotale. Ma il messaggio sì, accogliamolo.
E
proprio oggi, che il Nord marca con tanta enfasi la sua distanza dal
Sud del mondo e l'Occidente dall'Oriente, non dimentichiamo l'insegnamento
di Zolla che, letto bene, è capace di indicare quella sotterranea
fratellanza che gli uomini, per una perversa tendenza a marcare la
loro identità e la loro differenza, si ostinano pericolosamente a
negare.
(da "La Repubblica" 31 maggio 2002)
ZOLLA, UN DINAMITARDO FRA
I MITI DELL'OCCIDENTE
di Mario Baudino
Quando scomparve la scrittrice Cristina Campo, cui fu legato da un
lungo sodalizio di affetto e di studi, scrisse di lei: "La morte la
colse di sorpresa. Non vi era preparata. Nessuno pensa mai alla propria
morte". Era un tema che Elémire Zolla non aveva mai evitato, su cui
si era interrogato a lungo con la levità di un saggio taoista, negli
ultimi anni in cui una serie di malattie lo avevano costretto a non
muoversi più dalla sua bella casa di Montepulciano accanto alla moglie,
l´estetologa Grazia Marchianò. Ieri se n´è andato anche lui. Ha trovato
l´ultima e definitiva delle Uscite dal mondo cui aveva dedicato un
bellissimo libro per Adelphi. Era nato a Torino nel `26, da una famiglia
cosmopolita, fatta di un padre italo-francese (il pittore Venanzio
Zolla) e da una madre inglese. Non amava particolarmente la città,
che però fece nascere in lui un certo gusto per l´occulto; ci era
tornato ragazzo dopo aver abitato felicemente all´estero. Per lungo
tempo anche la cultura italiana gli fu estranea, come lo sarebbero
sempre stati i "padri" del nostro Novecento, da Croce a Gramsci. La
sua formazione era britannica, e divenne quasi automaticamente anglista
alla scuola di Mario Praz, di cui ereditò la cattedra alla Sapienza
di Roma: alle lezioni andava il giovane Roberto Calasso, che infatti
poi pubblicò o ripubblicò gran parte delle sue opere per l´Adelphi,
da Lo stupore infantile alle Uscite dal mondo alla Storia dell´alchimia.
Fu per un breve periodo romanziere di successo, quasi un enfant gâté
della Roma anni `50, dove sposò la poetessa Maria Luisa Spaziani,
un attimo prima che nella sua vita facesse irruzione Cristina Campo;
introdusse in Italia la scuola filosofica di Francoforte; ma la vera
vocazione, il cuore del suo lavoro, fu esplorare religioni e miti
(non solo nei libri, anche nella realtà del viaggio di scoperta).
Da studioso anticonformista delle culture tradizionali e naturalmente
da intellettuale scomodo fu però ben presto messo ai margini dal mondo
intellettuale italiano - la cosa non durò in eterno, ma quanto bastava
- con l´accusa di essere un intellettuale di destra. Lui che aveva
scritto, con grosso successo, L´eclissi dell´intellettuale alla fine
degli anni 50 (e vinto anche un premio Strega con un romanzo dal titolo
Minuetto all´Inferno) non era per nulla diventato "reazionario" all´improvviso:
aveva semplicemente preso atto della fine delle stagioni dell´impegno,
spiazzando i suoi amici che in quel momento nell´impegno si tuffavano.
Di lì in poi il suo lavoro venne guardato con diffidenza. Le incursioni
nella mistica ebraica o musulmana, l´attenzione per i maestri del
sufismo ma anche per i filosofi zen giapponesi ne fecero un personaggio
sospetto, uno che parlava bene di Tolkien e che non era in sintonia
con nessuno. Troppo aristocratico, troppo ironico. Ennio Flaiano gli
dedicò un epigramma simpatico: "Elemire Zolla / preferisco la folla",
lui vide nel `68 una cospirazione demoniaca e nel `71 pubblicò un
libro che fece molto scandalo, dal titolo Che cos´è la tradizione.
Era un´accusa radicale alle ideologie totalitarie, soprattutto quelle
di stampo "progressista", in cui vedeva una sorta di deriva "satanista"
dell´Illuminismo. Zolla non era affatto un reazionario, semmai un
liberale, e soprattutto un uomo mite. Nel `69 aveva avviato per la
Nuova Italia una rivista importante e "strana", Conoscenza religiosa,
destinata a durare fino all`83, accogliendo saggi di Borges e Quinzio,
e naturalmente di Cristina Campo. Studiava i mistici (importante l´antologia
ora ripubblicata da Adelphi sui Mistici dell'Occidente) ma si teneva
lontano dal misticismo. Lui non era un mistico. Semmai si sentiva
un monaco che non aveva mai fatto i tre voti canonici di povertà,
obbedienza, castità. Era uno spirito libero molto critico nei confronti
dell´Occidente ma anche attentissimo al nuovo mondo delle realtà virtuali.
Ha scritto moltissimo (oltre che per Adelphi per Marsilio, Mondadori,
Red, senza contare le meravigliose edizioni di singoli saggi che si
faceva stampare da un grande tipografo come Tallone). Non si è mai
lasciato incasellare. Pochi anni fa, alla mia ennesima domanda sulle
sue posizioni politiche rispose forse per l'ennesima volta che la
distinzione tra destra e sinistra, per quanto lo riguardava, non serviva
a molto, "se non alla contesa politica più bassa". "E´ una
deformazione che nasce dal parlamentarismo francese: il partito dominante
denomina destra il male e sinistra il bene. Poi di volta in volta
qualcuno capovolge i termini. Ma non si possono suddividere gli scrittori
tra destra e sinistra".
(da La Stampa - 31 maggio 2002 Sezione: Cultura)
L'ULTIMO ERUDITO ALLA RICERCA DEGLI ARCHETIPI
CULTURALI DELL'OCCIDENTE
di Carlo Sibona
In un libro ormai quasi dimenticato, Autodizionario degli scrittori
italiani (1990), Elémire Zolla, lo studioso di archetipi e simboli
spentosi a fine maggio a 76 anni, tracciò un preciso ritratto di se
stesso. Accanto ad annotazioni che già erano di dominio pubblico,
rivelò, in due scarne paginette, anche tratti intimi, privati. Apprendemmo,
allora, che suo padre, nato in Inghilterra, aveva studiato pittura
dedicandosi alla maniera di Whistler e dipingendo dame in kimono.
Si era poi stabilito in Italia, a Torino, dove aveva insegnato a un
gruppo di allievi, fra i quali Giulio Carlo Argan. La madre, Blanche
Smith, melanconica, ma non triste, prediligeva le ombre delle chiese
e dei chiostri e suonava molti strumenti.
Zolla
nacque nel capoluogo piemontese il 9 luglio 1926, quando imperversavano
la retorica populista e la demagogia autoritaria. Crebbe isolato,
parlando naturalmente inglese, francese e italiano, e studiando, in
seguito, il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e suonava il pianoforte.
Mandato a scuola, imparò l'arte di occultare i sentimenti e concesse
poco di sé ai compagni. Vedeva, tutt'attorno, docenti fascisti e scolari
figli di fascisti. Lo sollevava l'espatrio frequente, il soggiorno
in Inghilterra o a Parigi.
Durante
gli anni di guerra, Zolla notò che a poco a poco la gente diveniva
meno fascista. Salutò l'arrivo degli Alleati a Torino senza farsi
eccessive illusioni. Viveva raccolto, passeggiava, pensava. Giunto
il tempo della ricostruzione, si iscrisse alla Facoltà di legge, dove
conobbe qualche professore stimabile, lontano dalle risse ideologiche,
ma anche non pochi propugnatori di sciocchezze storicistiche. A 22
anni si ammalò di tisi e fu per morire. Durante la malattia, appartato,
scrisse un romanzo edito nel 1956, Minuetto all'inferno (Einaudi),
con cui vinse il premio Strega opera prima. Aveva pubblicato parecchio,
negli anni precedenti, sulle riviste Letterature moderne di
Francesco Flora e Il pensiero critico di Remo Cantoni. Erano
saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire
in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche.
Da quel luogo bandì la presenza di James Joyce. Gli scrissero, solidali,
Eliot e Thomas Mann.
Nel 1957 si trasferì a Roma, dove lavorò, per pochi mesi, nella redazione
di Tempo presente. Apparve allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione
(Garzanti), mai più riedito. La raccolta dei suoi saggi, in parte
ispirati alla Scuola di Francoforte (Eclissi dell'intellettuale,
Bompiani, 1959), ebbe, invece, numerose ristampe e traduzioni. Era
una negazione, destinata a non poter essere generalmente accettata,
di tutto il sistema dell'industria culturale. Rifiutato il positivismo
e il marxismo, fugata la dialettica di matrice hegeliana, l'opera
formulava il sottinteso invito ad abbandonare le dottrine e le pratiche
conformi al mondo industriale. Partiva da una concezione apodittica:
i maggiori autori degli ultimi secoli sono stati capaci di questo
rifiuto.
L'anno di uscita di quel libro si dimostrò cruciale: Zolla fu chiamato
a insegnare all'Università di Roma, specie per intervento di Mario
Praz, e incontrò Cristiana Campo, con la quale visse fino alla morte
di lei, nel 1977. Venne quindi il fecondo periodo di altre opere,
fra le quali va soprattutto ricordata l'antologia I mistici dell'Occidente
(Garzanti, 1963; riedito da Rizzoli, in sette volumi, nel 1980), dove
la tradizione mistica era documentata come l'area segreta in cui si
era affermata, nei millenni, l'uniformità permanente di una metafisica
assoluta. Dal rifiuto dello scientismo e del progressismo nacquero
poi due saggi, Storia del fantasticare e Le potenze dell'anima,
apparsi presso Bompiani. Zolla vinse il concorso a cattedra e andò
a insegnare prima a Catania, poi a Genova, dove rimase fino al 1974.
Pur rivisitandola nella prospettiva della mistica, la materia delle
sue lezioni divenne, allora, la letteratura anglo-americana. Egli
inoltre si permise alcune dottissime digressioni nella filologia germanica.
Nonostante
successo e fama internazionali, in Italia fu però isolato e aborrito
dal mondo culturale egemonizzato dagli intellettuali marxisti e ignorato
dagli uomini della politica al potere.
Zolla fu un viaggiatore curioso e quasi 'professionale'. Nel 1968,
dopo un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti, scrisse una storia
dell'immagine dell'Indiano (I letterati e lo sciamano, 1969).
Questo libro ebbe una risonanza notevole oltreoceano, e anche da noi
costituì una tappa imprescindibile negli studi di neo-anglistica.
Si dedicò anche a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e in Iran.
Parte
di questa esperienza si riflesse nel fondamentale Che cos'è la
tradizione (1971), ancora un rifiuto del modello di cultura occidentale,
anche ricercando nella metafisica del Medio e Estremo Oriente la possibilità
di sottrarvisi, sempre alla ricerca degli archetipi culturali, 'traditi'
dalla civiltà moderna dell'Occidente. A poco a poco, si andavano intanto
allentando i suoi rapporti con la Bompiani, che cessarono dopo la
pubblicazione della raffinata dissertazione alchemica Le meraviglie
della natura (1975).
Rimase però viva la sua collaborazione al Corriere della Sera. Seppure
con notevoli opposizioni, nel 1974 Zolla tornò a insegnare all'Università
di Roma. Risale a quel periodo la sua decisione di scrivere in inglese,
di 'saltare' l'editoria nazionale. In Inghilterra e in America usciranno
Archetypes (1980), seguito da The Androgyne (1981),
nelle cui pagine si addensò una cultura senza confini, un'immensa
erudizione. Trascorso il 1980, la situazione politica parzialmente
mutò e in Italia l'opposizione a Zolla sembrò via via dissolversi.
Egli riprese a scrivere nella nostra lingua e pubblicò quattro libri
presso Marsilio (Aure, L'amante invisibile, Archetipi e Verità
segrete esposte in evidenza). Nel frattempo, dal 1969 al 1983,
aveva diretto una rivista, Conoscenza religiosa (La Nuova Italia),
cui fece collaborare gli scrittori che gli parvero sottrarsi a ciò
che egli definiva 'la generale decadenza'. Poi giunsero, da Adelphi,
Uscite dal mondo (1992), Lo stupore infantile (1994)
e Le tre vie (1995); da Mondadori, La nube del telaio
(1996); da Einaudi, Il dio dell'ebbrezza (1998). Adelphi, inoltre,
annuncia la prossima pubblicazione di un nuovo libro: Discesa agli
inferi e resurrezione.
Recuperando i tesori culturali di popoli vicini e lontani, scavando
nel giardino sotto casa o in territori sperduti del pianeta, Zolla
seppe indicarci, dopo aver liquidato le trasgressioni moderne e post-moderne,
la via di una conoscenza 'giusta', insieme ardua e luminosa.
(da
kore-it)
LA MITICA GENERAZIONE DEI NUOVI
DINAMITARDI D'OCCIDENTE
di
Luca Guglielminetti
Molto di quanto scritto da Elemire Zolla, forse non pare, ma oggi
è incarnato. Incarnato nella generazione più giovane, quella che rischia.
Sì, rischia perché non avendo le prospettive dei padri, rischia di
trovarsi senza lavoro fisso, senza fissa dimora, senza pensione né
paura di morire. Ma quando non si ha paura di rischiare e di morire,
al contrario di Zolla, o di Cristina Campo, la svolta oggi non avviene
sul piano mistico delle idee. Semmai capita qualcosa di simile a quanto
scriveva Max Weber: "Gli antichi dei, disincantati e perciò trasformati
in potenze impersonali, sorgono dalle loro tombe e riprendono la lotta
fra di loro aspirando a conquistare il dominio sulla vita".
Molti
delle ultime generazioni, possono sembrare zombi, ma gli dei non li
praticano con la mistica, ma nella carne, cercando appunto di riconquistare
il "dominio sulla vita". Le folli corse in auto di notte a fari spenti,
gli eccessi di alcolici e stupefacenti, il rifiuto del lavorare, non
come bestie, ma in quanto solo bestie, certamente li connota come
'bassi'. Come 'bassa' è la considerazione per la contesa politica
espressa da Zolla e la Campo, così anche a questa generazione è chiaro
che destra e sinistra oggi mancano di connotazioni sufficientemente
chiare e si pongono al di sopra o fuori dalla politica in senso stretto:
cioè fuori dalla politica partitica. Nel senso che la politica, come
condivisione di spazi pubblici condivisi, si svolge fuori dalle sedi
di patito, fuori dalle sezioni e dalla maggior parte dei circoli politico-culturali.
In fondo molto di Zolla, fra cui la distonia tra l'intellettuale e
lo sciamano, oggi si aggira nelle nostre città, e l'espressione di
Flaiano : "Elemire Zolla / preferisco la folla", oggi suona, seppur
debolmente in quanto molto deprivato culturalmente (della cultura
classica), "Noi/ pratichiamo la folla" e forse anche un po' la follia.
Se
di miti si deve parlare, o rispecchiarcisi, i libri di Zolla, come
quelli di un Guénon o un Eliade, e come i molti altri della 'tradizione',
sono di una natura molto diversa da quelli di Kerény o di Hillman,
ad esempio. Qual'è la differenza? L'approccio esclusivamento "letterario"
ed "esoterico" dei primi e quello più "scientifico" od "essoterico"
dei secondi. Sarà perché l'illuminismo e l'uso della ragione non riusciamo
a percepirli come "cospirazione" o come "demoniaco", ci pare che la
differenza tra un mistico "liberale" e un socialista "liberale" risieda
nella dimensione sociale della conoscenza, o gnosi. Il rimprovero
a questa cultura, sicuramente emarginata per molti anni in Italia,
risiede non più tanto nel fatto di essere "di destra" tout-court,
quanto piuttosto per il disprezzo che esprime verso il "basso", la
piazza dove tumultuose e sporche si muovevano l'altro ieri le classi,
ieri la massa, oggi una somma di individui in relazioni varie tra
loro. La cultura di sinistra, con le rare eccezioni italiane costituite
da Furio Jesi o Ugo Volli, ha, a sua volta, respinto o rimosso la
"macchina mitologica". Solo in casi isolati di "socialismo eretico"
ha colto nel segno. Come trapela in tutta l'opera di Camus, dove si
percepisce la contiguità tra l'estrema solitudine e indifferenza dell'individuo
e tutto il senso a partecipazione a tutto ciò che lo circonda con
spirito di libertà ed eguaglianza.
In fondo l'unico rimprovero che ci sentiamo di muovere a Elémire Zolla
è solamente questo: non aver visto che gli dei non animano solo il
fondo della propria anima, o quella di una cerchia chiusa, ma agiscono
sempre in chiunque e ovunque in forme diverse, anche nella bassa piazza
della politica che rifiuta l'unità del tutto, ma si divide politeisticamente,
per non dire - dato il tema - semplicemente pluralisticamente, almeno
in parti opposte, come lo yin e yan della tradizione taoista. Quello
che vediamo noi, ed è profondamente socialista e liberale contemporaneamente,
è il principio di scissione originario del più semplice organismo
biologico vivente che si riproduce, forse nell'universo taoista, ma
sicuramente in modo evidentemente percepibile in noi stessi, nella
politica, all'interno degli schieramenti e dei singoli partiti, correnti,
e giù, giù in fondo fino a quando chiacchieriamo al bar con un amico
e siamo sempre in due.
Se
il titolo del suddetto articolo ci sintetizza Zolla come dinamitardo
dei miti dell'Occidente, oggi assistiamo all'esplosione concreta di
quella bomba. Gli "dei dell'estasi" non sono un meccanismo in fondo
al nostro cervello o cuore, ma sono carne lacera, che aspira a ricompattarsi
per domare la vita. Lui ha fatto un po' l'aristocratico ed è morto
in casa sua pur preferendo la folla, noi facciamo un po' gli anarchici
e ci sentiamo di morire in piazza, perché la nostra nostalgia non
sarà un mito morto da consumarsi in casa propria, ma una città viva,
come la Lugano Bella: un'utopia o una riforma dotate di bellezza sociale,
da condividere (con la forza impersonale degli antichi dei) con altri
negli spazi pubblici e privati.
(da Socialisti-net)
CONTRO
DOGMI, MODE E IDEOLOGIE
di Cesare Medail
I pensieri di Elémire Zolla qui pubblicati per gentile concessione
della moglie, la studiosa di estetica Grazia Marchianò, faranno parte
dei "Quaderni zolliani" che la stessa Marchianò sta raccogliendo:
intuizioni e riflessioni che il grande studioso di miti e religioni,
scomparso lo scorso 30 maggio a settantasei anni, annotava periodicamente.
Il pubblico del Corriere , al quale Zolla ha regolarmente collaborato
per quarantadue anni (1958-2000), riconoscerà la sua attitudine a
legare miti, simboli, tradizioni remote e presenti, abissi metafisici
ed esperienze estatiche; e riconoscerà la sua prosa inconfondibile,
che non procede per sillogismi ma per analogie: il discorso vira,
diverge, ritorna, come in una selva di allusioni dove i sentieri si
aggrovigliano come in un labirinto, ma dove una mano sapiente tesse
le piste che riportano alla trama ben salda del testo. Quello stile
proteiforme è forse il più idoneo a rappresentare le corrispondenze
che legano la molteplicità delle cose - metalli, piante, corpi celesti,
animali, stati di salute del corpo e dello spirito - nell'unità dell'esistente.
Una delle ultime opere di Zolla, La filosofia perenne (Mondadori),
dava proprio conto di quel pensiero che, filtrando come un fiume carsico
sotto l'effimero delle ideologie e delle mode, guarda alla realtà
ultima, ferma e immutabile, che sottende l'illusione delle apparenze:
una filosofia che attraversa il tao, lo yoga, il buddismo, scorre
da Pitagora a Platone, da Pico a Leibniz fino ai grandi mistici.
Certo,
questo pensiero può apparire antistorico, o nemico del progresso,
ed ha procurato a Zolla accuse stravaganti, non ultima l'iscrizione
arbitraria alla cultura di destra, in un mondo dove chiedersi da che
parte stiano gli intellettuali è quasi un riflesso condizionato. A
metà degli anni Novanta ci confessò: "Oggi mi sento libero, persino
esultante perché sono scomparse le due forze che mi avrebbero volentieri
chiuso in un campo di concentramento: nel 1945 ebbi la gioia di veder
crollare il fascismo e ora di vedere svanire l'Unione Sovietica e
il comunismo. Una volta sciolto, lascio i vecchi istituti politici
azzuffarsi nel combattimento e ne distolgo lo sguardo". Zolla, dunque,
appare un intellettuale a parte in un mondo di parte. Anacronistico?
Può darsi, anche se oggi sono in molti a riscoprire la spiritualità,
a volgere lo sguardo su quel nucleo di eternità che "sottende il divenire
e i suoi inganni", per "accedere allo stato di vuoto, di quiete che
in Oriente come in Occidente culmina nell'estasi".
Politica
a parte, sono in molti a chiedersi quali fossero, al di là dei suoi
studi di vagabondo dello spirito, le convinzioni personali di Zolla
sui grandi temi dell'esistenza, della vita e della morte (qualche
risposta, forse, verrà da questi taccuini privati, come nel pensiero
sull'"estinzione della coscienza" che pubblichiamo). Interrogato dalla
Tv Svizzera sui misteri ultimi rispose: ci sono cose che so, cose
che non so, cose che vorrei sapere.
Era,
infatti, restio a proclamare o a distribuire verità. Certo, i viaggi
in culture "altre", le frequentazioni straordinarie, la pratica della
meditazione svilupparono in lui un'attitudine contemplativa, che non
gli impediva di insegnare letteratura americana a Roma, di scrivere,
di tenere conferenze eccetera. La vita contemplativa, diceva, non
riguarda solo il pastore arcadico o il monaco delle vette, ma anche
il meccanico di Simone Weil "capace di valutare i significati pitagorici
di ciò che faceva, sia pure senza parole".
Elémire Zolla avrebbe potuto attirare seguaci, a partire dalla cerchia
di affezionati della rivista Conoscenza religiosa , che pubblicò fra
il 1969 e il 1983, ma trovava ripugnante l'idea del guru: "La tentazione
è forte", diceva, "ma credo basti un briciolo di vergogna, di pudore,
di divertimento, per evitare l'orrendo naufragio nella guruship".
E questo rifiuto di propinare verità segrete dovrebbe bastare a chi
ha cercato di ridurre Zolla, anche in sede commemorativa, a campione
di esoterismi da trasmettere per via iniziatica. Semmai, fu campione
di libertà intellettuale, nel ricercare fuori da ogni moda, dogma
o schema ideologico, le conoscenze nascoste in ogni angolo dello scibile
e della terra.
CHE
COSA ACCADE NELL'ATTIMO IN CUI LA COSCIENZA SI ESTINGUE
Pubblichiamo quattro "pensieri" di Elémire Zolla che faranno
parte dei "Quaderni" che la vedova, la studiosa di estetica Grazia
Marchianò, sta raccogliendo fra le sue carte: riflessioni e intuizioni
che Zolla annotava periodicamente sui suoi taccuini personali.
"L'estinzione"
Fino
a qual punto la coscienza si estingue? O, che cosa avviene della propria
persona nel corso di allucinazioni che portano al deliquio? Insufficienti
le risposte consuete.
Si
vorrebbe dare una replica netta, e si parla di manifestazioni distinte:
la consapevolezza rimane intatta in mezzo a ogni specie di travedimenti
ovvero sparisce e dopo non resta nessun ricordo della trance subìta.
E' vero, sussistono questi due estremi, ma quasi sempre trepida e
fluttuante è la realtà, il suo ricordo tremula, è arbitrario sempre,
la ricostruzione degli eventi d'una visione.
Già
un semplice sogno è difficile da rammentare salvo allo scatto del
risveglio: assumerlo nel linguaggio, vuol dire falsificarlo. E' arduo
dire fino a che punto un evento di sogno fa un'immagine e fino a che
punto una parola commossa.
Occorre
accettare il più delle volte l'esistenza onirica, la trance e in genere
l'allucinazione sciamanica come più vera del vero, un universo sottratto
alle nostre classificazioni, impervio alle nostre categorie, oscillante,
svanente ma nello stesso tempo fulgido e chiaro, contradditorio, atteggiato
nell'uno e nell'altro senso che durante la veglia si escludono. In
sanscrito esiste una parola che lo denota: vikalpa.
E'
fiabesco, ma connette verità che eludono la nostra attenzione di veglia,
di cui forse il nostro inconscio o certi animali si avvedono. Si estende
come un velo trepido, ma può imporsi come più netto del vero.
(da
Il Corriere della Sera - 26 maggio 2002)
E' MORTO ELÉMIRE
ZOLLA , VIANDANTE NEL SEGNO DI DIONISIO
di Ugo Leonzio
Lo studioso di culture e religioni orientali Elémire Zolla è morto
ieri a Montepulciano dove viveva da alcuni anni. Era nato a Torino
il 9 luglio del 1926. Aveva esordito come narratore vincendo, nel
1956, il premio Strega con "Minuetto all'inferno". Tra i suoi libri
più noti: "Eclissi dell'intellettuale", "I letterati e lo sciamano",
"Aure", "Le tre vie", "Uscite dal mondo", "I mistici dell'Occidente",
"Che cos'è la tradizione". Da Adelphi, il suo editore, uscirà nei
prossimi mesi, l'ultimo suo lavoro "Discesa aglli inferi e resurrezione".
Con
un paradosso che a Elémire Zolla sarebbe forse piaciuto, si potrebbe
dire che con la sua scomparsa si sia estinta una razza di scrittore
che da noi non è neanche esistita, se si eccettua Giuseppe Tucci il
grande tibetologo: Di che razza si tratta? In genere, per cavarsela
alla svelta si invocano quelle sintetiche gabbie culturali simili
a protesi, dalle quali Zolla e i suoi radi ma sicuri compagni di strada
rifuggirebbero come da una malattia dello spirito. Inutile elencarle,
qualsiasi categoria vi viene in mente. La qualità di un artista come
Zolla è la sua imprendibilità, la capacita di essere sempre virtuale
in ogni passaggio decisivo della vita, lasciare che ogni esperienza
magari drogata, sublime o Dionisiaca si manifestasse non da sola ma
come la parte di un fitto enigma in cui ci si doveva perdere. Perdersi
non è facile, soprattutto in una società intellettuale dove tutti,
con molta indulgenza, riescono a ritrovarsi e senza essersi mai perduti.
Io non so se, una volta entrato nell'enigma della sua mente, Zolla
abbia mai voluto uscirne. Aveva capito che il viaggio non concedeva
soste né riposo e soprattutto non c'erano fermate intermedie. Mi spiego
meglio: Qualcuno che avesse seguito puntigliosamente la carriera di
questo artista della mente quale era Zolla, e ne avesse letto puntigliosamente
tutta l'opera si troverebbe a mal partito se volesse riassumerla,
in qualche modo stringerla in una sintesi, indicarne un punto stabile
o piu alto o acuto, come si sceglie una poesia o un romanzo dall'opera
di un autore amato. La singolarità dell'opera di Elémire Zolla è che
non si può scegliere perché si dovrebbe rinunciare a qualcosa di piu
decisivo che sta proprio lì accanto, nella pagina successiva o in
quella precedente.
Il
viaggio di Zolla nella vita era sostanzialmente il prodigioso enigma
che invece di diradarsi cresceva di giorno in giorno, di libro in
libro facendo apparire piu intensa e lontana la natura della bellezza
e, se esiste, della verità. Se esiste… È inutile chiedersi se, adesso
che Zolla ha terminato la prima parte del suo viaggio, qualche bagliore
di verità possa apparirgli o se quell'enigma cosi disperante e fecondo,
almeno per i suoi lettori, continuerà a spingerlo sempre più avanti.
Zolla conosceva bene il Libro dei morti tibetano e a me personalmente
fa piacere immaginarlo mentre, fra tra giorni, inizierà il suo viaggio
nel Bardo, nella dimensione oltremondana che aveva inseguito nella
realtà piu pesante e fumosa del nostro mondo.
Esperto
di ricerche mistiche, occulte ed esoteriche in tutte le culture del
mondo, aveva trovato in quelle orientali la porta stretta che permetteva
di dare una sguardo all'Altra Parte. Sapeva bene, quindi, che una
volta lasciato che gli elementi del corpo tornassero alla terra, la
mente avrebbe dovuto fronteggiare se stessa, non in una dimensione
aliena, in un paradiso o in un inferno ma in quella zona grigia o
luminosa che avevamo preparato in vita. Senza più l'ausilio del corpo
la mente libera il suo inconscio e finalmente incontra se stessa,
pacifica o crudele, serena oppure avida, ostile e piena di paura,
In questo passaggio difficile e tormentoso cui nessuno, probabilmente,
potrà sfuggire, io credo che Elémire Zolla incontrerà la sfida piu
avvincente, quella per cui si era preparato lungo il corso della sua
vita. Chi ama il viaggio non cerca tanto la conoscenza dei luoghi,
le origini o i misteri, la bellezza o gli orrori. Quelli sono i viveri
che consentono di proseguire il viaggio, sono le stanze dentro cui
è lecito riposarsi e sognare. Ma per i veri viaggiatori, come Zolla,
quello che viene inseguito e ci si fa inseguire, è la Morte: Il Dio
dell'ebbrezza cosi caro a Elémire Zolla non rivela solo il piacere
estremo e non tanto recondito che la realtà della vita sa offrirci
ma è soprattutto un guardiano in attesa davanti a una di quelle porte
di cui anche Kafka ha cosi spesso parlato. Dioniso offre l'ebbrezza
come viatico per il viaggio che ci attende e che quasi tutti vorrebbero
rimandare. Ma c'è una categoria, direi una razza, di viaggiatori che
vuole conoscere il segreto dei segreti, il cuore dei cuori, mentre
è ancora viva, perché esiste questa leggenda fin dal primo dei libri
conosciuti, la saga di Gilgamesh, che chi incontra la morte da vivo
diventa immortale.
I
libri di Elemire Zolla riflettono come in uno specchio i vari frammenti
di questi incontri con il segreto della morte. A volte ne descrivono
la voce o il volto, spesso il portamento, la capacità di perdersi
per qualche istante nella danza o nel canto o in un raga indiano intonato
nel cuore della notte in un "ashram" o ai bordi di un lago, di un
fiume sacro o di un monte sulla cui vetta è dato a qualcuno di scorgere
Shiva o Dolma o tutti gli dei e i Buddha che abbiamo sognato e inseguito
nel tempo. A noi restano i libri di questo singolare, solitario viaggiatore,
guide blu per paesi che forse non sono mai esistiti o che si apprestano
a sparire insieme al loro autore. Essi testimoniano, come splendenti
graffiti, un tempo felice dove i libri creavano il mondo e i poeti
della mente, come Elemire Zolla, incontravano gli Dei.
(da
l'Unità - 30 maggio 2002)
UNO SCIAMANO CON LA PASSIONE
DELL'ESTRANEITA'
di Giulio Busi
Nella primavera del 1996, Elémire Zolla aveva accettato di buon grado
di presentare il libro sulla mistica ebraica che avevo curato assieme
a Elena Loewenthal. La cosa mi lusingò, perché Zolla abbandonava ormai
molto raramente il suo rifugio di Montepulciano (dove si è spento
giovedì scorso a 76 anni). Per colpa di alcuni imprevisti, la presentazione
dovette essere rimandata e anziché una gradevole giornata di maggio
ci trovammo ad affrontare una Roma di piena estate, smarrita in una
terrea calura. Zolla sostenne la situazione con notevole eleganza.
Indossava una giacca bianca e scarpe inglesi bicolori, e pareva del
tutto a suo agio.
Avrei
voluto condividere il suo sereno distacco britannico e invece mi prefíguravo
una sala in Campidoglio - lì appunto era stata organizzata la manifestazione
- desolatamente vuota. Temevo una figuraccia, soprattutto quella che
avrei fatto con Zolla, mi domandavo chi mai avrebbe avuto il coraggio
di affrontare la canicola per discutere di qabbalah.
Tuttavia
mi sbagliavo. La platea era quasi piena quando arrivammo, i giornalisti
e una piccola troupe televisiva già appostati. Non appena ci
avvistarono, non ebbero esitazioni. Furono tutti per lui, lo fotografarono,
lo intervistarono, lo ripresero. Zolla non si scompose né si meravigliò
Dopo un attimo di stupore, tirai un sospiro di sollievo. Era giusto
che fosse cosi. Così era Zolla.
Di mistica avevamo parlato talvolta con animazione. Discorsi in cui
avevo avuto modo di sperimentare il tratto sottilmente irregolare
e asistematico del suo pensiero, quell'abitudine ad affrontare le
questioni più difficili partendo da un dettaglio, da un'atmosfera,
da un volto. Ho spesso avuto l'impressione che Zolla attendesse l'interlocutore
con pazienza, concedendosi lo svago d'inesauribili digressioni. D'un
tratto, quando meno me l'aspettavo, trovava un varco nel mio sussiego
specialistico, con un rilievo fulmineo e impertinente. Il suo modo
di avvicinarsi ai testi non era quasi mai quello guardingo del filologo
né gl'interessava contemplare le parole di lontano o studiare i conflitti
interiori dei mistici da un osservatorio distante e asettico. Aveva
piuttosto un talento naturale per trasformare in racconto anche gli
spunti più eruditi. Poteva fare di'un elenco di etimologie un viaggio
sciamanico e di una frase sola l'eco amplificata di un'intera epoca.
I
mondi che dipanava sulla carta provenivano in gran parte da altri
libri, dalle inesauribili letture di una biblioteca lussureggiante
come una foresta. Una volta ebbi l'opportunità di restare qualche
ora solo tra i suoi volumi. Poter scorrere in silenzio i dorsi di
quella biblioteca mi offrì una traccia per capire la complessa vicenda
intellettuale di Zolla. All'inizio, mi sembrò impossibile trovare
un ordine tra le centinaia di scritti che si estendevano alle più
diverse discipline. Dalla fenomenologia delle religioni alle lingue
orientali, alla letteratura inglese - per lo più edizioni d'età vittoriana
- e fino a certe arcigne enciclopedie ottocentesche ed a manuali di
botanica, prodighi d'illustrazioni acquerellate. Intuii che ognuno
di quei libri corrispondeva a un affioramento, a una protratta nostalgia.
Era come se mi restituissero il metodo stesso del lavoro di Zolla,
una passione saldamente ingenua per l'estraneità, per le esperienze
ai margini della norma.
Mi confídò di aver trascorso alcuni dei suoi periodi di studio più
sereni a Teheran. Pareva del tutto naturale sentirlo parlare, nella
luce quieta di Montepulciano, di filosofi persiani, e di certi suoi
incontri - non so più se letterari o reali - con alchimisti che, in
Africa, bevevano l'oro.
(da Il Sole 24 ore - 2 giugno 2002)
L'ORIENTE SULLE CRETE SENESI
di Lucia Piccioni
Nato a Torino nel 1926, Elémire Zolla è morto giovedì nella sua casa
di Montepulciano, dove viveva da molti anni, fra quelle colline senesi
che considerava un "insegnamento ininterrotto, una melodia perpetua,
una scoperta ubriacante", come raccontava a Doriano Fasoli in Un
destino itinerante. Conversazioni tra Occidente e Oriente, edito
da Marsilio nel 1995. Saggista e critico tradizionalista, professore
di letteratura americana prima all'università di Genova e poi a "La
Sapienza" di Roma, in quella stessa cattedra che fu, prima di lui,
di Mario Praz. Fu un pensatore anti-progressista o meglio antimodernista,
si interessò alle culture e alle religioni orientali cercando di rintracciare
sempre, sotto la superficie delle differenze, simboli, segni e figure
che avvicinassero l'Oriente e l'Occidente. Un percorso di difficile
e controversa catalogazione che lo portò dalle origini di anglista
ad approdare alle dottrine esoteriche e mistiche fino all'alchimia.
In difesa di una spiritualità, secondo il suo pensiero soffocata dal
materialismo moderno. Avvicinandosi alla Scuola di Francoforte per
poi criticare con nettezza la civiltà di massa con due testi che restano
tra i suoi più importanti: L'eclissi dell'intellettuale (del
1959) e Volgarità e dolore, entrambi pubblicati dall'editore
Bompiani. Una traiettoria che comprende l'uscita per Adelphi, nel
1971, di un libro che all'epoca suscitò non poche polemiche, Che
cos'è la tradizione (che lo stesso editore ristampò nel 1998).
Una requisitoria contro le ideologie totalitarie, soprattutto quelle
di segno progressista, in cui Zolla rintracciava una sorta di degenerazione
satanica dell'Illuminismo. La sua produzione di libri e saggi è vastissima.
Una delle sue opere più note resta senza dubbio I letterati e lo
sciamano, testo del 1969. Nel 1978, sulla scia del pensiero del
filosofo di destra Oswald Spengler autore del libro Il tramonto
dell'occidente edito a Monaco nel 1917, Zolla scrive il libro
Gli usi dell'immaginazione e il declino dell'occidente. Del
1997 è la ripubblicazione in due volumi per Adelphi del libro I
mistici dell'Occidente. Del 1999, stavolta per Einaudi, è il volume
Il dio dell'ebbrezza: antologia dei moderni dionisiaci. Numeroso
è l'insieme dei saggi da lui raccolti che sono stati editi in numerosi
volumi, relativi alla figura del Superuomo (nicciano) nella letteratura
europea e nord-americana. Zolla vede incarnati nel Parsifal e nel
Tannhauser il prototipo del super-uomo. In una introduzione scrive:
"Il culto delle forze distruttive non basta da solo a definire lo
stregone `maligno', essendo proprio infatti anche del mistico scivaita
che tali forze adora per purificarsi d'ogni identificazione col divenire
e sciogliersi compiutamente da se stesso. Lo stregone `maligno' e
il superuomo invocano viceversa la distruttività per esaltare fino
al delirio perpetuo l'io che hanno prima quintessenziato riducendolo
alla sua smorfia più atroce". Da ciò si capisce quanto Zolla sia stato
lontano da una corretta interpretazione della figura del Superuomo
di Nietzsche. Secondo il grande filosofo tedesco non esistono fatti,
ma solo interpretazioni e pertanto il Superuomo come titolare
della volontà di potenza, viene pensato come quel soggetto
capace di dare interpretazioni del mondo e cioè di conferire, attraverso
la sua lettura energetica e avvalorante realtà a quello che pensa
e a quello che fa: nuovo demiurgo moderno.
Zolla è anche autore di romanzi come Minuetto all'inferno (Einaudi
1956) con il quale vinse il premio Strega riservato alle opere prime
e Cecilia o la disattenzione (1961), penetrante e ambiguo ritratto
psicologico.
Una delle sue ultime opere pubblicate è il saggio edito da Adelphi
Lo stupore infantile. Lo scrittore aveva consegnato un ultimo
testo dal titolo: Discesa agli Inferi e resurrezione che sarà
in libreria (sempre per Adelphi) il prossimo autunno.
(da
Il Manifesto - 1 giugno 2002)
CI SONO UOMINI CHE NON SONO
ADATTI PER L'EPOCA IN CUI VIVONO...
di
Armando Torno
Ci sono uomini che non sono adatti per l'epoca. Avrebbero preferito
il Rinascimento, quando Carlo V sosteneva di parlare in tedesco con
il suo cavallo, o la Roma antica, quando i generali si punivano da
soli con la morte. Però, nonostante gli sforzi mentali e non, a costoro
non è dato scegliere il tempo in cui spendere la propria esistenza.
La devono subire, come tutti. Elémire Zolla, nato a Torino nel 1926,
morto ieri mattina alle 11 nel suo ritiro di Montepulciano, era uno
di questi. Romanziere, critico, cultore di mistica, di simbologia,
delle civiltà orientali, conoscitore dell'alchimia, storico dell'anima
umana nel senso lato del termine, ha rappresentato l'intellettuale
lontano dalle segreterie dei partiti in anni in cui molti hanno confuso
questi modesti luoghi con le biblioteche, o con le sedi di ricerca
e dei concorsi universitari. Zolla, insomma, aveva tutte le caratteristiche
per finire in quella pagina - è ne L'inutile bellezza - in cui Guy
de Maupassant definisce la categoria degli intellettuali come quella
"degli eterni e miserabili esuli su questa terra". Comunque Zolla
non fu un esule, anzi. Riuscì in molti casi ad avere i riflettori
giusti al momento opportuno, proprio perché rappresentava l'eccezione
da segnalare. Poteva, ad esempio, esordire con il romanzo Minuetto
all'inferno (Einaudi 1956) e vincere il premio "Strega Opera prima"
insieme a Storie ferraresi di Giorgio Bassani. Riusciva inoltre ad
avvicinarsi alla Scuola di Francoforte e poi sapeva criticare acutamente
la civiltà di massa con due libri che restano tra i suoi migliori:
Eclissi dell'intellettuale (1959) e Volgarità e dolore (1962) che
videro la luce presso Bompiani. E infine si congedò dalla critica
quando tutti vi si gettarono come pesci lessi; si diede alla metafisica,
ovvero a quelle che chiamò "fonti sapienziali extra-storiche". Ci
riuscì con un'opera monumentale che è ancora oggi utile, ovvero con
l'antologia I mistici in cui c'è anche il lavoro e lo straordinario
gusto di Cristina Campo (uscì da Garzanti nel 1963; è stata ristampata
in due volumi da Adelphi nel 1997). Nel 1964 ecco la Storia del fantasticare
(Bompiani), nel '75 Le meraviglie della natura , un saggio dedicato
all'alchimia (ora ristampato da Marsilio). ù
Non
tutto finisce qui. C'è uno Zolla che si occupa di sciamanesimo, uno
che si dedica a J. Petru Culianu, studioso rumeno della gnosi (c'è
il saggio numerato edito da Tallone), uno infine che approda - siamo
alla fine degli anni Novanta - da Mondadori e pubblica libri dalle
alte tirature come La nube del telaio o La filosofia perenne . È quello
che poco dopo, per lo spirito dei tempi o perché tutti dobbiamo campare,
presenzia al "Maurizio Costanzo Show". Di questo Zolla abbiamo visto
molto e conosciamo troppo poco per scrivere.
Quello
che ringraziamo e a cui siamo debitori è lo studioso che dirigeva
una rivista edita da La Nuova Italia e che cessò le sue pubblicazioni
negli anni Settanta: si chiamava Conoscenza religiosa. Su quelle pagine
si poteva riflettere grazie ai contributi di Abraham Joshua Heschel,
di Marius Schneider (memorabile un suo intervento sul numero 1 del
1969 dedicato a La simbologia della danza ), di Cristina Campo, di
Mircea Eliade, di altri autori che allora erano considerati reazionari.
Si trovavano poesie degli indiani d'America o ricerche sulla simbologia
dell'asino nelle religioni, inediti di alchimisti o notizie sui mistici
renani o russi, saggi di filosofia orientale, congetture su Dioniso
o su Iside. Lì i riflettori non si accesero. Erano pagine troppo intelligenti
per attirarli.
Da
Adelphi c'è il saggio su Lo stupore infantile (1994) e nel 1998 questo
editore ristampò un libro che nel 1971, quando uscì, fece digrignare
non pochi denti ma oggi non suscita più alcuna reazione, anche se
resta un'opera che è il caso di leggere: si tratta di Che cos'è la
tradizione . Il prossimo, che Zolla aveva già consegnato ad Adelphi
e che uscirà in autunno, ha come titolo Discesa agli inferi e resurrezione
. È un viaggio nel regno dei morti, nelle varie concezioni che gli
uomini hanno elaborato intorno ad esso. Strana coincidenza: il suo
esordio fu il ricordato Minuetto all'inferno . Quel luogo, fisico
o metafisico che sia, egli lo tenne vivo nelle sue opere. Lui, comunque,
ha lasciato scritto che desidera essere cremato e aveva chiesto poche
notizie, se non il silenzio, intorno alla sua fine. Ha cercato di
evitare gli inferni di questa terra. Per quelli culturali c'è riuscito
abbastanza bene; per gli altri è il caso di ricordare che sulla porta
di casa sua ha scritto le seguenti parole (citiamo a memoria): non
parcheggiate automobili qui davanti, perché la mia salma dovrà passare
di qua.
(da
Il Corriere della Sera - 31 maggio 2002)
E' MORTO ELÉMIRE
ZOLLA, PENSATORE BORDERLINE
di Raf Valvola
Era un pensatore ai bordi delle ideologie e delle appartenenze. Questo
è il tratto, aristocratico e contraddittorio, di Zolla che a 76 anni
è morto ieri nella sua "mitica" casa di Montepulciano.
Anni
fa, nel 1990/1 capitò che assieme a Matteo Guarnaccia, straordinario
pittore visionario e finanche psichedelico della scena postbeat italiana,
ci trovassimo a parlare improvvisamente di pensiero siberiano, di
misticismo, di viaggi nella coscienza; com'era giusto che fosse, d'altronde...
Poi
il discorso non poteva che cadere sui pensatori, gli scrittori che
a vario titolo ci avevano colpito. Uno di questi (tra i tanti innominabili
reazionari) era proprio lui, Zolla, che in modo differente (con letture
diverse) avevamo entrambi apprezzato negli anni passati.
E
decidemmo di fare una cosa assurda per noi all'epoca. Di mandargli
un libro, un libro che avevo appena pubblicato: Cyberpunk. Antologia
di testi politici (ShaKe). Così, perché dentro si parlava di Timothy
Leary, di viaggi nella coscienza, del suo neoplatonismo, del neoplatonismo
insito nel concetto di virtuale eccetera. Incredibilmente, dopo un
paio di mesi arrivò la risposta di Zolla. Lui, il grande santone.
Ci rispose con una cartolina postale, con la sua grafia minuta, ringraziandoci
della nostra gentilezza e delle idee contenute nel libro, che nel
frattempo aveva letto.
Poi,
un paio di anni dopo avrebbe fatto un libro proprio sulla fuga nel
virtuale, per l'editore del suo ex allievo universitario Calasso,
la Adelphi, la casa editrice che in anticipo sui tempi aveva sdoganato
in Italia la cultura neognostica e antimaterialista. Quindi parlare
di Zolla, significa anche dover fare i conti con gli esiti di un pensiero
che contribuì a scalzare in modo forte l'egemonia culturale marxista
dalle pagine culturali dei quotidiani (basti pensare alla pagina culturale
di "Repubblica"), accompagnando in modo colto la fuga nel privato,
che avrebbe attraversato in modo arrembante tutti gli anni ottanta.
Ma
Zolla andava al di là di questo. E un po' la sua biografia lo spiegava.
E forse il libro suo che ho apprezzato di più è stato un libretto
che nessun coccodrillo apparso oggi sui giornali si è preoccupato
di citare. Della fine degli anni cinquanta, La piccola storia del
fantasticare, è un libro prezioso, quasi oracolare, nonostante la
struttura argomentativa da saggio serio con cui era stato steso. In
esso c'era tutta la sua lettura di "destra" della Scuola di Francoforte,
la polemica contro le avanguardie artistiche letterarie storiche del
Novecento, contro Joyce, contro l'Ulisse e il monologo di Molly Bloom,
contro il disvelamento del lato interiore della coscienza, che in
quel saggio leggeva inopinatamente come tratto caratterizzante della
modernità. Con Joyce andava colpiva anche il freudismo, che aveva
eretto una vera e propria ermeneutica del disvelamento dei percorsi
interiori e quindi dell'immaginazione e del suo imbarbarimento.
Una
polemica che poi Zolla avrebbe provveduto a perseguire con un viaggio
lungo nelle mitologie del sogno sciamanico.
Come imparare a controllare i sogni, a guidarli, a strutturare un'etica
dell'immaginazione... tanti piccoli, preziosi, ma soprattutto inattuali
libri, pubblicati ora qui ora là (Marsilio, la collana di Eco per
Bompiani, la Rizzoli).
Il
fatto di essere borderline talvolta faceva sì che non fosse sempre
rigoroso nelle sue scelte filosofiche, ma era un costo che doveva
pagare per essere sempre a lato delle cose. Certamente, La storia
dei mistici dell'Occidente presenta una serie di pecche interpretative
notevoli che non sono di certo sfuggite ai medievisti, ma che importa,
voleva stupire, anzi fantasticare...
E
c'è riuscito. Spero tanto che abbia un buon viaggio adesso, e che
il Libro dei morti, di tibetana memoria, che così bene conosceva,
gli possa essere utile in questo importante momento.
(da
decoder-it - 31 maggio 2002)
ADDIO
A ELÉMIRE
ZOLLA, MISTICO D'OCCIDENTE
di
Giuseppe Saltini
In un libro ormai quasi dimenticato, Autodizionario degli scrittori
italiani (1990), Elémire Zolla, lo studioso di archetipi e simboli
spentosi ieri a 76 anni, tracciò un preciso ritratto di se stesso.
Accanto ad annotazioni che già erano di dominio pubblico, rivelò,
in due scarne paginette, anche tratti intimi, privati. Apprendemmo,
allora, che suo padre, nato in Inghilterra, aveva studiato pittura
dedicandosi alla maniera di Whistler e dipingendo dame in kimono.
Si era poi stabilito in Italia, a Torino, dove aveva insegnato a un
gruppo di allievi (fra i quali vi era Giulio Carlo Argan). La madre,
Blanche Smith, suonava molti strumenti. Prediligeva le ombre delle
chiese e dei chiostri.
Zolla
nacque nel capoluogo piemontese il 9 luglio 1926, quando imperversavano
la retorica populista e la demagogia autoritaria. Crebbe isolato,
parlando naturalmente inglese, francese e italiano, e studiando, in
seguito, il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e suonava il pianoforte.
Mandato a scuola, imparò l'arte di occultare i sentimenti e concesse
poco di sé ai compagni. Vedeva, tutt'attorno, docenti fascisti e scolari
figli di fascisti. Lo sollevava l'espatrio frequente, il soggiorno
in Inghilterra o a Parigi.
Durante
gli anni di guerra, Zolla notò che a poco a poco la gente diveniva
meno fascista. Salutò l'arrivo degli alleati a Torino senza farsi
eccessive illusioni. Viveva raccolto, passeggiava, pensava. Giunta
l'epoca della ricostruzione, si iscrisse alla Facoltà di legge, dove
conobbe qualche professore stimabile, lontano dalle risse ideologiche,
ma anche non pochi propugnatori di sciocchezze storicistiche. A 22
anni si ammalò di tisi e fu per morire. Durante la malattia, appartato,
scrisse un romanzo che uscirà nel 1956, Minuetto all'inferno (Einaudi),
con cui vinse il premio Strega opera prima. Aveva stampato parecchio,
negli anni precedenti, sulla rivista Letterature moderne di Francesco
Flora e Il pensiero critico di Remo Cantoni. Erano saggi sui maggiori
autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di
luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche. Da quel luogo
bandì la presenza di James Joyce. Gli scrissero Eliot e Thomas Mann,
per consentire.
Nel
1957 si trasferì a Roma, dove lavorò, per pochi mesi, nella redazione
di Tempo presente. Apparve allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione
(Garzanti), mai più riedito. La raccolta dei suoi saggi, in parte
ispirati alla Scuola di Francoforte (Eclissi dell'intellettuale, Bompiani,
1959), ebbe, invece, numerose ristampe e traduzioni. Era una negazione,
destinata a non poter essere generalmente accettata, di tutto il sistema
dell'industria culturale. Rifiutato il positivismo e il marxismo,
fugata la dialettica di matrice hegeliana, l'opera formulava il sottinteso
invito ad abbandonare le dottrine e le pratiche conformi al mondo
industriale. Partiva da una concezione apodittica: i maggiori autori
degli ultimi secoli sono stati capaci di questo esodo.
L'anno
di uscita di quel libro si dimostrò cruciale: Zolla fu chiamato a
insegnare all'Università di Roma, specie per intervento di Mario Praz,
e incontrò Cristiana Campo, con la quale visse fino alla morte di
lei, nel 1977. Emergeranno quindi altre opere, fra cui va soprattutto
ricordata un'antologia, I mistici dell'Occidente (Garzanti, 1963;
riedito da Rizzoli, in sette volumi, nel 1980), dove la tradizione
mistica era documentata come l'area segreta in cui si era affermata,
nei millenni, l'uniformità permanente di una metafisica assoluta.
Dal rifiuto dello scientismo e del progressismo nacquero poi due saggi,
Storia del fantasticare e Le potenze dell'anima, apparsi presso Bompiani.
Zolla vinse il concorso a cattedra e andò a insegnare prima a Catania,
poi a Genova, dove rimase fino al 1974. Pur rivisitandola nella prospettiva
della mistica, la materia delle sue lezioni divenne, allora, la letteratura
anglo-americana. Egli inoltre si permise alcune dottissime disgressioni
nella filologia germanica.
Nel 1968, dopo un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti, Zolla scrisse
una storia dell'immagine dell'Indiano (I letterati e lo sciamano,
1969). Questo libro ebbe una risonanza notevole Oltreoceano, e anche
da noi costituì una tappa imprescindibile negli studi di neo-anglistica.
Nonostante successo e fama internazionali, l'autore fu però isolato
e aborrito, in Italia, dalla classe al potere. Egli si dedicò a viaggi
in India, in Indonesia, in Corea e in Iran. A poco a poco, dopo la
pubblicazione di Che cos'è la tradizione (1971) e della dissertazione
alchemica Le meraviglie della natura (1975), cessarono i suoi rapporti
con la Bompiani. Rimase però viva la sua collaborazione al Corriere
della Sera.
Seppure
con notevoli opposizioni, Zolla tornerà a insegnare all'Università
di Roma, nel 1974. Risale a quel periodo la sua decisione di scrivere
in inglese, di "saltare" l'editoria nazionale. In Inghilterra e in
America uscirà Archetypes (1980), seguito da The Androgyne (1981),
nelle cui pagine si addensò una cultura senza confini, un'immensa
erudizione. Trascorso il 1980, la situazione politica parzialmente
mutò, in Italia, e l'opposizione a Zolla sembrò via via dissolversi.
Egli riprese a scrivere nella nostra lingua e pubblicò quattro libri
presso Marsilio (Aure, L'amante invisibile, Archetipi e Verità segrete
esposte in evidenza). Nel frattempo, dal 1969 al 1983, aveva diretto
una rivista, Conoscenza religiosa (La Nuova Italia), cui fece collaborare
gli scrittori che gli parvero sottrarsi a ciò che egli definiva "la
generale decadenza". Poi giunsero, da Adelphi, Uscite dal mondo (1992),
Lo stupore infantile (1994) e Le tre vie (1995); da Mondadori, La
nube del telaio (1996); da Einaudi, Il dio dell'ebbrezza (1998). Adelphi,
inoltre, annuncia la prossima pubblicazione di un nuovo libro: Discesa
agli inferi e resurrezione. Recuperando i tesori culturali di popoli
vicini e lontani, scavando nel giardino sotto casa o in territori
sperduti del pianeta, Zolla seppe indicarci, dopo aver liquidato le
trasgressioni moderne e post-moderne, la via di una conoscenza "giusta",
insieme ardua e luminosa.
(da
Il Messaggero - 31 maggio 2002)
E' MORTO ELÉMIRE
ZOLLA
E' morto oggi pomeriggio a Montepulciano Elemire Zolla, filosofo e
studioso delle religioni. Viveva in modo molto riservato da alcuni
anni in una abitazione del centro storico, dove, verso le 17, è avvenuto
il decesso. Da alcuni mesi soffriva di asma e di altri gravi disturbi.
Uomo di straordinaria e multiforme cultura, Elemire Zolla è stato
uno dei principali studiosi e interpreti in Italia del pensiero "tradizionale",
intendendo questo termine come pensiero svincolato dalle ideologie
contemporanee e risalente alle fonti mitiche della cultura.
Nato a Torino il 9 luglio 1926, aveva avuto un percorso intellettuale
estremamente ricco e complesso. Docente di letteratura inglese a Genova
e poi di letteratura anglo-americana a Roma, aveva esplorato le vie
meno battute della narrativa di lingua inglese, studiando tematiche
come quella del superuomo, del gotico, della ispirazione mito-poetica
(fu tra coloro che fecero conosce J.R.R. Tolkien in Italia).
Studioso
delle religioni e delle culture orientali, aveva cercato in esse le
radici delle contrapposizioni e delle coincidenze fra il mondo d'Oriente
e quello d'Occidente. Cultore delle tematiche alternative, aveva riportato
alla luce la ricchezza di tradizioni ed esperienze dimenticate, come
l'alchimia, il tantrismo, il pensiero magico.
In tutto ciò, non aveva dimenticato di essere un esponente della cultura
moderna, attivo nel mondo d'oggi: dalla sovrapposizione fra elementi
ideali antichissimi e dati della conoscenza moderna, aveva tratto
approfondimenti di grande originalità, come l'accostamento delle visioni
dei mistici alla "realtà virtuale" della moderna elettronica.
Narratore oltre che saggista, aveva vinto nel 1956 il Premio Strega
con "Minuetto per l'inferno". Il suo libro più famoso è ancora "I
letterati e lo sciamano", del 1969, nel quale - sulla scorta anche
delle ricerche di Mircea Eliade - rivelò la ricchezza poetica del
pensiero "primitivo", contestando l'interpretazione freddamente strutturalista
allora di moda fra gli antropologi che studiavano le popolazioni "primitive";
un termine, questo, che ha sempre ferocemente avversato. Fondamentale
nella sua produzione è la folta antologia "I mistici dell'Occidente"
(1977), pubblicata in diversi volumi, nella quale riporta e commenta
con grande penetrazione le pagine più importanti del pensiero religioso/trascendente
della nostra tradizione culturale. Fra gli altri suoi libri "Storia
del fantasticare", saggio mirabilmente percettivo sulle origini del
fantastico nella letteratura (tema esplorato anche il "Lo stupore
infantile"); e poi "Aure" (1985), "Uscite dal mondo" (1992), "Le tre
vie" (1995), tutti dedicati all'esplorazione della spiritualità orientale.
Il suo ultimo volume uscito, nel 2001, è "Che cos'è la tradizione".
Per i prossimi mesi è annunciato il suo ultimo libro, che uscirà postumo,
"Discesa agli inferi e resurrezione".
(da
RaiNews 24 - 30 maggio 2002)
RICORDO DI ELÉMIRE
ZOLLA
di
Giuseppe Saltini
Elémire Zolla è tornato con forza nel mio ricordo di recente, mentre
leggevo il bel libro dedicato da Cristina De Stefano alla "Vita segreta"
di Cristina Campo, che per anni, fino alla morte, fu la sua compagna.
Rammento quel tempo, nei primi anni Settanta, quando andavo a trovarli
sull'Aventino, dove abitavano, attratto da quella coppia non comune,
che rappresentava un punto di riferimento intellettuale di grande
caratura per chi, come me, conduceva una ricerca spirituale ben oltre
gli angusti limiti del razionalismo e del laicismo bigotto.
Zolla,
nato a Torino nel 1926, ha subito nella sua vita una rivoluzione interiore
che dal punto di vista esteriore ha pagato a caro prezzo: nonostante
l'importanza dei suoi libri, che hanno avuto successo soprattutto
all'estero (alcuni li ha scritti direttamente in inglese), egli era
un marginale nella cultura italiana (e d'altronde amava vivere appartato)
che non gli perdonava il suo "tradimento".
Cresciuto
e formatosi nella Torino azionista dell'immediato dopoguerra, aveva
assorbito tutti i luoghi comuni di una visione del mondo orizzontale
e piatta, acerrima nemica di ogni slancio metafisico. all'improvviso,
sui quarant'anni, gli si sono aperti gli occhi su un'altra realtà,
affollata dalle suggestioni della natura e dello spirito che sovrabbondano
oltre i limiti imposti all'intelligenza moderna, chiusa entro un cerchio
ove tutte le cose, compresa la bellezza, sono mute. Ricordo che mi
diceva: è come se fossi stato scorticato vivo, è come se avessi completamente
cambiato pelle; quello che vedo e capisco oggi è completamente diverso
da quello che vedevo e capivo ieri.
Naturalmente
incontrai per la prima volta Zolla in un suo libro, "Eclissi dell'intellettuale"
(1959), in cui rendeva testimonianza della sua "conversione" denunciando
per così dire dall'interno l'ottusità del sistema culturale obbligato
dalla modernità. Per chi era affamato di alternative al materialismo
ideologico, quel libro fu un segno meraviglioso. Ne cercai l'autore,
andai a trovarlo, e così cominciò la nostra amicizia. Dopo quel libro,
Zolla ha approfondito le sue ricerche spirituali sul filo della tradizione,
pubblicando opere importanti. Ricordo fra l'altro la fondamentale
antologia "I mistici" e "Le potenze dell'anima". Un saggio mi è particolarmente
caro, "Storia del fantasticare", che sapientemente mi ha tolto ogni
complesso nei confronti di certa letteratura moderna che non sono
mai riuscito a digerire; in quel libro Zolla distingue magistralmente
tra fantasia creatrice e fantasticheria che rimescola la melma dell'anima
(come in Joyce, per intenderci sinteticamente).
Zolla
non fu soltanto un grande studioso e scrittore, fu anche, sotterraneamente,
un operatore culturale cui l'intelligenza e l'editoria italiana debbono
molto. All'inizio degli anni Settanta l'editore Rusconi fondò una
casa editrice di cui affidò la direzione ad Alfredo Cattabiani, che
allora era molto giovane ma assai preparato. Cattabiani si avvalse
della consulenza di Zolla, e anche questo gli permise di pubblicare
una serie di opere, di autori italiani e stranieri, che allora furono
una vera rivelazione (estremamente urtante per i conformisti) di un
vasto ambito di pensiero alternativo a quello materialista.
Ieri
Zolla è spirato a Montepulciano, dove viveva da anni. Con lui scompare
un autore "scomodo" che però rappresenta nel mondo un'alta testimonianza
dell'intelligenza italiana.
(da
Il Tempo - 31 maggio 2002)
Un ricordo del grande filosofo,
antropologo e studioso del misticismo recentemente scomparso
ZOLLA E LA RIVINCITA DELL'INTELLETTUALE
VERO
di Alberto Lombardo
Molte parole della nostra lingua sono abusate e utilizzate per indicare
concetti diversi da quelli cui dovrebbero riferirsi, secondo il significato
loro proprio: un chiaro esempio in questo senso ci è dato dal termine
intellettuale. Non solo, infatti, questo vocabolo viene impiegato
per designare ogni sorta di individuo che prenda in mano la penna
o che pronunci parola nei convegni di "cultura", ma anche il termine
intelletto (da cui il primo direttamente deriva) viene generosamente
esteso a campî ove ben difficilmente fa ingresso. Ebbene, Elémire
Zolla è stato un intellettuale, e lo è stato nel senso etimologico
del termine (che è poi l'unico legittimo), vale a dire un uomo capace
di intus legere - e per ciò stesso intelligente. Come scrisse infatti
René Guénon, "l'intelletto, in quanto principio universale, potrebbe
essere concepito come ciò che contiene la Conoscenza Totale" (Gli
stati molteplici dell'essere) e l'intuizione intellettuale "è contemporaneamente
il veicolo della conoscenza e la conoscenza stessa, e in essa il soggetto
e l'oggetto si identificano e si unificano" (Introduzione generale
allo studio delle dottrine indù). Elémire Zolla ha avuto un suo preciso
e significativo ruolo nel mondo della cultura, quello che ne ha fatto
un emblematico pensatore, solitario in uno squallido panorama di conformisti
ad ogni costo. Infatti l'ambiente della asfittica cultura ufficiale
accademica, completamente egemonizzata dai rispettivi materialismi
e relativismi alla Freud, Marx ed Einstein non vide mai di buon occhio
(e d'altronde, come avrebbe potuto?) uno studioso così "sulfureamente"
attento alle religioni, all'alchimia, alla gnosi, al mito, alle culture
tradizionali, all'esoterismo, alla spiritualità d'Oriente e Occidente:
argomenti che sin troppe volte abbiamo dovuto sentir bollati come
"arbitrarî", "irrazionali", e spesso anche come "fascisti" dagli inquisitori
della cultura ufficiale. Zolla aprì dunque una breccia assai pericolosa
in quella muraglia editoriale: da lì infatti, con le sue incursioni,
sarebbero filtrati, prima come un rivolo e poi con forza sempre più
impetuosa, testi, idee, autori e prospettive di eccezionale importanza,
prima celati o condannati all'invisibilità, spesso anche perché pubblicati
da minuscole case editrici di destra. Alfredo Cattabiani, che ebbe
Zolla come direttore di collana (insieme ad Augusto del Noce) quando
dirigeva Borla, prima, e come consulente presso Rusconi, successivamente,
lo ha ricordato su Avvenire con queste parole: "Ha avuto due meriti
indiscutibili: di avere percorso fin dagli Anni 50 l'itinerario di
liberazione dai fantasmi ideologici, abbandonando i territori della
cultura strumentale per giungere a quelli che hanno come fondamento
il primato della contemplazione. In questo viaggio [...] ha avuto
anche modo di educare le nuove generazioni con i convegni che organizzò
alla fine degli anni '60 presso l'Istituto Accademico di Roma, scoprendo
scrittori e studiosi italiani, allora sconosciuti, da Guido Ceronetti
a Giuseppe Sermonti [...]: ricorderò fra tanti altri Mircea Eliade,
René Guénon, J.R.R. Tolkien, lo storico dell'arte Hans Sedlmayr, il
lama tibetano Chögyam Trungpa, il rabbino Abraham Heschel, Pavel Florenskij
o Giorgio de Santillana". Ciò che più vale dell'opera di Zolla è il
penetrante sistema cognitivo, che egli applicò al tantrismo e alla
magia, all'alchimia e alla filosofia induista e via dicendo ai vari
argomenti di cui si occupò: un metodo alquanto libero (tanto che si
trae la sensazione, talvolta, di "perdersi" nella sua lettura) ma
di un'efficacia suggestiva talmente intensa da risultare quasi ipnotica.
Però al tempo stesso, poiché la forma è anche (ed essenzialmente)
sostanza, ciò che vi è di più valido in Zolla spesso si rovescia nel
suo opposto. Sebbene probabilmente non sia molto garbato né appropriato
muovere critiche o avanzare riserve su un autore appena scomparso,
inquadrarne la figura intellettuale nel suo complesso è però giusto,
poiché contribuisce a fornirne un'immagine completa. Ebbene, quel
peculiarissimo stile di Elémire Zolla, che tanto affascina i lettori,
quello stile cioè che Adriano Romualdi trent'anni fa definì "lambiccato
e inquieto", è sì capace di elevarsi verso altezze notevolissime,
sulle ali della fantasia creatrice, quanto di penetrare le oscurità
profonde, seguendo il filo di ardite speculazioni: ma ciò che immancabilmente
si trae dalla sua lettura, dal suo stile vibrante, è la sensazione
di uno sviamento, di una perdita di coscienza "pericolosa". Per chiarire
per quanto possibile questo punto, occorre avvicinarsi più da vicino
ai temi cari all'autore. Spesso nell'opera di Zolla si trova il riferimento
agli stati trascendenti della coscienza: si tratta infatti di un leitmotiv,
di un tema conduttore dei suoi studî sui quali indubbiamente la preparazione
dell'autore è amplissima, e che fornisce una messe notevole di informazioni
e spunti. Ma la concezione degli stati estatici di Zolla è essenzialmente
di tipo mistico, non magico: l'estasi appare cioè quasi come una forma
più ampia della trance, e in essa ricadono dunque - con toni spesso
quasi indifferenti - le visioni dei santi medievali, le evocazioni
degli antichi baccanali, le illuminazioni dei monaci tibetani, ma
anche i fumi dell'oppio dei "poeti maledetti", i riti coribantici
dell'Africa nera, persino gli "sballi" dei giovani odierni o della
realtà virtuale (specialmente di quella ventura e perfettibile). Tutto
rientra, in questa grande visione dell'estasi, nel composito insieme
delle vie di "uscita dal mondo". Il sacro, sostenne il grande storico
delle religioni Mircea Eliade, non cessa mai di esistere: tutt'al
più esso si cela, mutando continuamente le proprie forme, e sopravvive
persino nelle società più secolarizzate ed apparentemente non religiose
o antireligiose. Questo è certo il caso anche della tensione al sovrannaturale,
ma la chiarezza è necessaria, dati i pericoli che corre chi si avvia
sulla strada dell'"uscita dal mondo". Contro le perplessità di Zolla
al proposito (dovute probabilmente alla sua particolare vocazione
"mistica"), la preparazione adeguata è necessaria a non smarrirsi.
Il mondo del sovrannaturale si può infatti ben rappresentare con quello
descritto da Collodi nel Pinocchio, un'opera davvero ricca di sapienza
ermetica (neppure troppo celata): il Paese dei Balocchi non è come
appare, e chi non abbia la necessaria preparazione per inoltrarvisi
ne rimane trasformato, sfigurato. Allo stesso modo, chi si cala negli
"inferi" della coscienza profonda, o nel ventre della balena, non
sempre trova la strada del ritorno e persino mette in grave pericolo
il nocciolo della sua esistenza. Elémire Zolla, che è stato uno degli
ultimi grandi scrittori - stregoni di questo secolo, non volle insistere
su questo aspetto. E fu forse questo a renderlo noto e caro a così
tanti lettori, e al tempo stesso il vero limite della sua grandezza.
(da La Padania - 6 giugno 2002)
ELÉMIRE
ZOLLA, IL PENSATORE CONTRO TUTTE LE CORRENTI
di Riccardo Garbetta
Con la scomparsa di Elémire Zolla, avvenuta giovedì scorso nella sua
casa di Montepunlciano, esce di scena non soltanto uno dei più grandi
saggisti italiani, ma anche una delle figure più nobili e atipiche
di intellettuale del nostro tempo. E forse l'espressione "del nostro
tempo" a lui non sarebbe piaciuta, proprio perché in qualche modo
egli incarnava una forma di pensiero anacronistico, avverso com'era
oltre tutto all'esigenza di modernità affermata da quasi tutte le
correnti del XX secolo. La pretesa di essere moderni risponde alla
necessità, o all'illusione, di innovare rispetto al passato attraverso
l'adesione alle mode del tempo, seguendo e condividendo le scelte
dettate dal gusto, dalle teorie del momento. Questa inclinazione ad
assecondare le tendenze dominanti nauseava Zolla, che tra l'altro
vedeva in essa una pericolosa accettazione del conformismo, giacché
essere alla moda è uno dei tanti modi per omologarsi, per rientrare
in schemi che non consentono in definitiva alcuna vera originalità.
Essere contro la modernità per Elémire Zolla tuttavia non equivaleva
alla difesa della tradizione, giacché con pari convinzione egli polemizzò
con tutte le formule volte a imporre valori consolidati e imprescindibili
a partire proprio dai concetti di patria, di famiglia o fedeltà alla
nazione che da fanciullo negli anni Trenta si era sentito imporre
sotto il regime fascista. Un'infanzia, la sua, per altri versi molto
fortunata, in quanto favorita, nel processo di formazione - come egli
stesso teneva a precisare allorché era invitato a parlare di sé -
dalla distrazione dei genitori artisti (pittore il padre, pianista
la madre), persone politicamente indifferenti e troppo prese dal proprio
lavoro per occuparsi del figlio e influenzarne le scelte. Questo disimpegno
educativo della sua famiglia fu considerato da Zolla assolutamente
fondamentale per la libertà e lo sviluppo del suo orientamento culturale.
Autore
di opere importanti e ardite, quali Eclissi dell'intellettuale,
I letterati e lo sciamano, Lo stupore infantile, Zolla
sosteneva soprattutto l'essenza di un sapere che fosse espressione
di una verità unica e universale, una verità da conseguirsi astraendo
dagli interessi particolari contingenti e dalle divisioni operate
dagli uomini nel corso del tempo.
Essenziale
fu per lui prendere quindi distanza non solo dalla modernità e dalla
tradizione, ma anche dalle masse, dalle istituzioni, dalle chiese
tutte, oltre che da qualsiasi schieramento politico, sempre in considerazione
del fatto che l'appartenenza a qualsiasi ideologia è un vero e proprio
impedimento alla conoscenza della verità. E non fu un caso se nel
corso della sua ricerca egli incontrò la mistica, disciplina alla
quale sembrò essere per certi versi quasi predestinato. In effetti,
I mistici dell'Occidente, uscito negli anni Settanta, è il
libro che, nel ripercorrere la storia dei pensatori più illuminati
a partire dai pitagorici fino al XVIII secolo, segna una delle tappe
più significative della sua riflessione.
Zolla dichiarò di aver dovuto interrompere la sua antologia alla fine
del Settecento perché nelle epoche successive non aveva incontrato
nessuna figura di pensatore in cui poter ravvisare l'intensità intellettuale
di un mistico; come se la Rivoluzione Francese e le idee illuministiche
che si diffusero rapidamente in tutto l'Occidente avessero reso impossibile
al pensiero di calarsi nelle zone più profonde della sua riflessione.
Importantissima, a questo proposito, la precisazione in più occasioni
ribadita da Zolla riguardo alla natura stessa della mistica, da intendersi
non come atteggiamento spirituale necessariamente in rapporto con
l'esperienza religiosa (molti mistici in effetti sono laici) quanto
piuttosto con la speciale profondità di un pensiero che si riallaccia
a una verità prima e fondante.
Una
verità - è questa la constatazione straordinaria di Zolla - che resta
identica e costante in tutti i mistici senza distinzione alcuna, a
prescindere sia dall'epoca storica che dall'ambiente geografico in
cui essi si trovarono a vivere. E se i mistici di ogni tempo e latitudine
affermano una stessa cosa, di conseguenza la verità non potrà essere
che una sola. Conclusione, questa, in perfetta consonanza con quella
che è stata definita "filosofia perenne", formulata da Pavlel Florenskij,
teologo del primo Novecento che l'Italia ha potuto conoscere proprio
grazie ad Elémire Zolla. Con filosofia perenne si designa una filosofia
che per affermarsi non ha bisogno di negare o contrapporsi a un'altra.
Una forma di conoscenza, in altri termini, che si precisa e definisce
esclusivamente nell'affermazione di un'unica, sostanziale verità.
(da
aise-it)
Da "Autodizionario degli Scrittori
Italiani" (Milano, Leonardo Editore, 1989)
Zolla Elémire
Nacque a Torino il 9 luglio 1926. Suo padre, Venanzio, era nato in
Inghilterra da padre lombardo e madre alsaziana; aveva studiato pittura,
dedicandosi alla maniera di Whistler, dipingendo dame in kimono, venendo
quindi in Italia, con la moglie inglese e stabilendosi a Torino, dove
aveva un gruppo di allievi (fra loro era anche Argan). La madre, Blanche
Smith, sapeva suonare ogni strumento, ma preferì l'organo.
Zolla
crebbe isolato nella casa paterna, parlando naturalmente inglese,
francese e italiano, studiando in seguito il tedesco e lo spagnolo.
Dipingeva e sonava il pianoforte. Messo a scuola, imparò l'arte di
fingere, di occultare i sentimenti, disprezzò quanti gli stavano d'attorno.
Non incontrò se non fascisti in Italia; lo sollevava l'espatrio frequente,
il soggiorno in Inghilterra o a Parigi. Cominciò a leggere fitto;
a scuola riuscì facilmente.
Fu
in Italia durante la guerra, uno dei rari periodi di quieta ricchezza
per suo padre; notò che a poco a poco la gente divenne meno fascista.
Ricorda l'arrivo degli alleati a Torino, esattamente come l'aveva
immaginato da dieci anni.
Seguì
la facoltà di legge a Torino, che aveva qualche professore capace,
e anche qualche sperimentatore di sciocchezze strutturalistiche. A
ventidue anni si ammalò di tisi e fu per morire; durante la malattia
scrisse un romanzo, che uscì nel 1956: Minuetto all'inferno
(Einaudi) ed ebbe il premio Strega opera prima. Aveva parecchio stampato
negli anni precedenti, sulla rivista "Letterature moderne" di Flora
e "Il pensiero critico" di Cantoni, in seguito sullo "Spettatore italiano"
e infine, a partire dal 1957, su "Tempo Presente". Erano saggi sui
maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una
specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche; escluse
la presenza, fra loro, di Joyce. Gli scrissero Eliot e Thomas Mann,
per consentire.
Nel
1957 si trasferì a Roma, dove per breve tempo ebbe parte nella redazione
di "Tempo Presente". E di allora un nuovo romanzo, Cecilia o la
disattenzione (Garzanti).
La
raccolta dei suoi saggi, in parte ispirati alla Scuola di Francoforte,
Eclissi dell'intellettuale (Bompiani, 1959, premio Crotone),
ebbe parecchie riedizioni e traduzioni. Era una negazione, destinata
a non poter essere generalmente accettata, e tutto il sistema dell'industria
culturale, nel quale si rifletteva la tendenza del pensiero nato dopo
il capovolgimento hegeliano. L'opera formulava il sottinteso invito
ad abbandonare il mondo quale è stato conformato dal potere di questo
pensiero: i maggiori autori degli ultimi due secoli sono stati capaci
di questo esodo.
L'anno
dell'uscita di quel libro era cruciale: Zolla fu anche chiamato a
insegnare all'università di Roma, specie per l'intervento di Mario
Praz, e incontrò Cristina Campo, con la quale visse fino alla morte
di lei nel 1977.
Uscirono
varie opere negli anni successivi, specie un'antologia, I mistici
dell'Occidente (Garzanti, 1963, riedito nel 1980 da Rizzoli in
sette volumi). La tradizione mistica era qui documentata come il luogo
segreto dove si era affermata nei millenni l'uniformità permanente
di una metafisica immutevole, negazione radicale del mondo in quanto
tale, ancor prima che esso assumesse l'aspetto moderno. Presso Bompiani
uscirono i saggi successivi: Storia del fantasticare e Le
potenze dell'anima. Nel 1966 Zolla vinse il concorso a cattedra
e andò nel 1967 a insegnare a Catania, per passare quindi a Genova,
dove rimase fino al 1974, insegnando oltre a letteratura angloamericana
anche filologia germanica.
Nel
1968 da un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti ricavò una storia
dell'immagine dell'Indiano, I letterati e lo sciamano (1969,
Bompiani, nel 1988 rielaborato, Marsilio). L'opera ebbe una risonanza
notevole negli Stati Uniti.
Il
periodo che andò dal 1968 al 1980 vide Zolla isolato e aborrito in
Italia dalla classe che aveva afferrato il potere; egli si dedicò
a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e soprattutto in Iran. A
poco a poco, dopo la pubblicazione di Che cos'è la tradizione
(1971) e della vasta dissertazione alchemica Le meraviglie della
natura (1975), cessarono i rapporti con Bompiani. Rimase viva
però, in qualche modo, la collaborazione al "Corriere della Sera".
Zolla
tornò con notevoli opposizioni a insegnare all'università di Roma
nel 1974. Cominciò a scrivere in inglese. Uscì in Inghilterra e in
America Archetypes (1980), seguito da The Androgyne
(1981). Dopo il 1980 in Italia mutò la situazione politica, l'opposizione
a Zolla parve in gran parte dissolversi. Egli sposò nel 1980 Grazia
Marchianò. Riprese a scrivere in italiano e uscirono presso la Marsilio
Aure (quattro edizioni, 1985), L'amante invisibile (premio
Ascoli Piceno, 1987), Archetipi (premio Isola d'Elba e Mircea
Eliade, 1988), Verità segrete esposte in evidenza (1990).
Aveva
diretto dal 1969 al 1983 una rivista, cui fece collaborare gli autori
che gli parvero in qualche modo salvarsi dalla generale decadenza,
"Conoscenza religiosa" (La Nuova Italia), e in quel periodo formulò
la metafisica esposta in Archetipi: essa gli parve il dono
che poteva lasciare, soluzione rigorosa e pacificante d'ogni questione
filosofica, capace di salvare dall'influsso delle ideologie moderne
e di far partecipare alla gioia che dalla maturità in poi egli sentì
pervadere la sua vita.
L'ultima intervista da "LA STAMPA"- Sezione cultura 27.02.2002
"Il
burattino framassone"
Zolla: la storia di un´iniziazione
ispirata a Apuleio
"IL
Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica
quasi intollerabile". Elémire Zolla, l'intellettuale italiano più
introdotto nei segreti di Pinocchio (si veda il suo Uscite dal mondo
pubblicato da Adelphi), risponde da iniziato, scegliendo le parole
con cautela quasi sacrale e lasciando al fondo un che di enigmatico,
un'eco di mistero. "Un bambino che legga con tutto il cuore questo
libro ne esce trasformato. Diventa un'altra persona di cui non è lecito
parlare".
Che
genere di altra persona?
"Una
persona con una mentalità da martire. In quale altro libro si insegna
al bambino a diffidare di tutte le autorità terrene? E chi altro può
vivere disdegnando quasi completamente la giustizia umana?".
Forse
lei dice "bambino" nell'accezione sacra per cui è "puer" il non iniziato.
"Ovviamente Pinocchio è la storia di un'iniziazione. Come le Metamorfosi
di Apuleio. Ha presente le pagine finali? Il latino del grande retore
diventa una lingua infantile quando narra l'epifania di Iside, la
madre universale, colei che compare nei sogni se si sogna rettamente...
Che poi in Collodi è la fata dai capelli turchini".
Un
momento. Chi è la fata dai capelli turchini?
"È
la prefigurazione della capra sullo scoglio nel mare in tempesta,
che compare nel libro molto più tardi, e che pure ha il pelo azzurro".
Perché
Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre che come fata?
"Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice, rappresentante di
tutto il mondo animale, o meglio dell'indistinzione tra animale e
umano".
In
effetti in Apuleio il protagonista è trasformato in asino. Non vorrà
dire che anche le orecchie d'asino di Pinocchio vengono di lì?
"Certo. Il che significa semplicemente che provengono dalla cultura
di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva. Vede, una
loggia di Firenze, al tempo di Collodi, non era luogo di modesta cultura.
Certe letture erano comuni, elementari addirittura. La massoneria
ferveva di una rinascita del pitagorismo antico, culminata poi in
Arturo Reghini, grande scrittore e matematico in lite con Mussolini
e con Evola".
Vuol
dire che la letteratura antica era un codice?
"Era linguaggio elettivo per comunicare all'interno dell'ambiente
massonico. E lì le cose su cui si posavano gli occhi si trasmutavano.
C'è un passo di Marco Aurelio: "Ricordati che colui che tira i fili
è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola,
la vita nostra, è Lui l'Uomo... Cosa ben più divina delle passioni
che ci rendono simili a marionette e nient'altro". Si attaglia alla
storia del burattino, ne è la chiave".
Ma
allora "Pinocchio" è un libro per bambini o una parabola massonica?
"Entrambe
le cose, è questo il miracolo. La semplicità della lingua toscana
in Pinocchio nasce dal fatto che Collodi sta trasmettendo una verità
esoterica è non può che esprimerla così, come la narrerebbe a un bambino.
È il ritegno di chi sta parlando di cose indicibili che produce questo
particolare linguaggio, in Collodi come in Apuleio".
In
questa chiave esoterica, che significa il nome Pinocchio? e Lucignolo?
e il Gatto e la Volpe?
"In
latino pinocolus significa pezzetto di pino. Per un pagano è l'albero
sempreverde che sfida la morte invernale. Lucignolo è un Lucifero
miserello, a misura di puer, cioè di pre-iniziato, e il Gatto e la
Volpe sono Legbà e Shù, grandi personaggi della mitologia africana
che si ritrovano anche nel Vudù. Allora si leggeva, e di libri sul
Vudù l'America di fine Ottocento era piena. Qualche massone d'oltreoceano
poteva avere informato Collodi. La vita di loggia è molto strana,
è segreta e piena di incontri".
Vuol
dire che "Pinocchio" non può comprendersi del tutto senza conoscere
la massoneria?
"No,
voglio dire che Pinocchio continua un'antichissima tradizione sotterranea
della letteratura italiana. In rapporto ai rituali massonici si chiarisce
il significato della poesia medievale - Federico II, Dante e Cavalcanti
- così come l'esoterismo della Rinascenza in tutti quei grandi che
vissero l'integrazione di Bisanzio nella cultura occidentale ai tempi
del concilio di Ferrara e Firenze e intorno a Enea Silvio Piccolomini,
un grande gnostico: pensi alla lettera veramente esoterica che scrisse
al sultano ottomano, al neopaganesimo di Pienza... Tutti, anche gli
alti prelati sanno che dal culto di Iside deriva la Madonna, che la
leggenda dei magi testimonia come l'atto fondante della cristianità
sia l'innesto dello zoroastrismo, come può vedersi, proprio vicino
a Pienza, nei rilievi della pieve di Corsignano!".
La prego, torni a "Pinocchio".
"Pinocchio,
come dicevo, continua la lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana,
nel senso più spirituale, che è al centro della nostra letteratura".
Il
che varrebbe a dire che la grande letteratura italiana è essenzialmente
massonica?
"Varrebbe a dire che spesso noi italiani ci lamentiamo di non avere
una letteratura all'altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca.
Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è
sotterranea e segreta, perché a differenza degli inglesi e dei tedeschi
ha dovuto sottrarsi alla censura dell'ala meno illuminata e elitaria
della cultura cattolica".
Silvia
Ronchey
L'ultimo articolo dello studioso, una rilettura della teoria psicologica
di René Guénon, da "Il SOLE 24 ORE" del 2 giugno 2002
BENVENUTI NELL'ARCA DELL'INCONSCIO
di Elémire Zolla
Quando Guénon morì nel suo ritiro del Cairo lasciò uno stuolo di opere
possibili a svolazzare attorno ai suoi patiti, a parte le lettere.
Da queste caviamo i segreti della sua vita esoterica, il suo almanacco
su tradizioni segrete, poniamo negli anni Trenta sulla vita di comunità
segrete in Etiopia, specie sulle cattedrali nascoste a Gondar dall'imperatore
Lalibelà, sull'iniziazione dei giovinetti al culto dell'arca dell'Alleanza
ebraica, trasmesso dai primordi della Chiesa etiopica e custodito
in una chiesetta decrepita sul lago di Gondar. Le notizie sono di
enorme portata per chi rammenti il passo di Agostino sulla messa catacombale,
sospesa all'improvviso, con la cacciata dei catecumeni e l'estensione
sull'ara dell'arca, mistero divino supremo agli iniziali di grado
supremo: l'arca iniziatica, con le figure dei cherubini che segnano
un mistero di Dio.
Perché
l'Italia scatenò la guerra all'unico Stato africano dotato di tali
tesori? So che un futuro diplomatico ebreo romano fu incaricato allora
di tradurre per il ministero alcune opere essenziali della Chiesa
etiopica. Sicché mi pervennero tante copie di lettere di Guénon, ma
non pensai mai di farle stampare. Chi mi garantiva la loro autenticità?
Perché mescolarmi agli intriganti in lizza fra loro?
Grossato
(René Guénon (attribuito a), "Psychologie", a cura di Alessandro Grossato,
Archè, Milano 2001), che ha raccolto questi pregevoli appunti per
una rettifica dei concetti fondamentali di psicologia, ha perfino
indovinato il periodo di composizione del malloppo: a Blois, per i
cinque allievi del corso di filosofia liceale. Grossato, fra i più
sistematici studiosi di Guénon, ha compilato un eccellente dizionario
dei simboli presso Mondadori e ha svolto un'analisi guénoniana dell'anno
liturgico ebraico. Adesso insegna, accanto agli studiosi di gnosi
e di guénonismo all'Università di Trieste, all'Università di Gorizia.
Mi giunge l'invito alla presentazione della sua ultima opera il 14
maggio alla Fondazione Cini sull'isola di San Giorgio: lo scambio
di lettere fra Guénon e Alain Daniélou, depositato alla Cini. Proprio
ciò che mi aveva annunciato Moravia quando incominciai a leggere Guénon;
era ancora vivo in un comune adiacente ai Castelli Romani Alain Daniélou.
Il volume è edito da Olschki, Firenze.
L'opera di Guénon sulla psicologia parte dal fatto che con Locke nasce
l'idea, assente dianzi, di psicologia. Grandi conoscitori della psiche
si erano accumulati ben prima, ma con Locke si incomincia a trattare
i fenomeni interiori come tema di una scienza autonoma. Individuo
un caso singolare di somiglianza, lo stupore del senatore Agnelli
quando studiò Roma e arredò la esposizione sulla civiltà romana all'Eur.
Là l'impero romano come Fiat antica, impegnato a incanalare i trasporti
fra Lazio ed Egitto, con efficacia economica impeccabile: flotte immense
erano organizzate per sedare la fame dello stomaco e della mente.
Eppure nessuno aveva ancora elaborato una scienza economica, come
s'era fatto? Semplicemente calcolando giusto quante navi occorressero,
con quanti porti e quanti ingaggi. Esattamente alla stessa maniera
ci si spiega come procedesse il mondo antico per calcolare le regole
della psiche. I fenomeni psichici non sono puramente quantitativi,
ma qualitativi e la loro intensità non si misura in numeri, come la
paralisi fisiologica non si sottomette alla psichica. Il pensiero
si adatta alle condizioni di qualcosa che sta aldilà della vita, con
fini che sovrastano quelli vigenti durante la vita. La psicologia
è scienza della mente, si svolge con osservazione e induzione: l'ipotesi
va verificata e c'è un limite oltre il quale l'induzione si tramuta
in deduzione fino a raggiungere il punto i cui si dimostra che la
memoria risale all'abitudine. L'isolamento del soggetto si ottiene
mercé l'ipnosi, che lo rinserra in se stesso e lo fa ubbidire a stimoli
artefatti.
La coscienza dei fatti psichici in genere li ripartisce in emotivi
e volitivi, oltre che puramente intellettuali. C'è l'inconscio, che
si è attribuito alla pluralità di coscienza, ipotesi disputabile.
Invero l'unità della coscienza non è mai metafisicamente rigorosa,
ne esistono prolungamenti, che formano l'inconscio. Per definirlo
non è il caso di fermarsi a Leibniz perché già il numero di per sé
è discontinuo e la continuità dell'esistenza un'illusione. In realtà
c'è un minimo di fenomeni percepiti, ma l'inconscio mai non spiega
il conscio, il cosciente chiaro e distinto è forse soltanto il contenente
della psiche. Ribot fu il primo filosofo della coscienza, che attribuì
il fondo della psiche al semplice funzionamento psichico, ma forma
in se stesso un'unità altamente imperfetta. Lo psicologo non spiega
la coscienza come il fisico o il matematico non spiegano spazio e
tempo, anzi, nemmeno ne forniscono la definizione, perché dell'irriducibile
non si può. Di fatto le denominazioni della metafisica indù dei cinque
sensi sono le uniche a reggere, nitide come le 5 dita della mano a
cui si connettono. L'opera guénoniana interpreta l'opera di Jung e
si sofferma sul momento in cui nasce il metodo junghiano più intimo
dell'esame psichico; quando nel pieno della sua attività, Jung si
sorprese a domandarsi: "Ma che cosa sto facendo; questa non è certo
scienza, ma che cos'è?" e di colpo udì la voce della sua cliente Sabina
Spielrein che si pronunciava: "E' arte". Decise di ingaggiare un discorso
con la voce, concedendole la propria fonazione per offrirle tutto
lo spazio necessario ad articolare un discorso. Il metodo era tratto
dalle pratiche spiritistiche: così la psicanalisi si tramutò in sacramento
del diavolo.
Il
brano che segue di Elemire ZOLLA, "The Androgyne reconciliation of
male and female", New York, Crossroad, Thames and Hudson ltd, Londra
1981, è stato tratto da "ANDROGINO" a cura di A. Faivre e F. Tristan,
editrice ECIG, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.
Le
immagini che qui lo corredano sono selezionate da Moreno Neri
L'ANDROGINO
ALCHEMICO
di Elémire Zolla
Ermete Trismegisto, il leggendario fondatore dell'alchimia, addita
il mistero primordiale della natura, il principio del fuoco, che avvolge
nella sua quadruplice fiamma gli opposti essenziali: sole e luna,
maschio e femmina, zolfo e mercurio, che danno luogo all'unità androgina
in ogni atto di concezione e nascita in natura. Essi circondano la
terra concentrando su di essa le influenze astrali, e nel centro della
terra si combinano in un triangolo, o piuttosto, tridimensionalmente,
in una piramide, che è la forma del cristallo di sale (sia dei sali
marini, sia degli allumi minerali, femminili). Il lato destro del
triangolo corrisponde al principio sulfureo maschile, il lato sinistro
al principio mercuriale femminile e la base del triangolo al principio
salino. La figura contenuta all'interno allude alla quadratura del
cerchio, simbolo dell'androginia. La progressione va perciò dal triangolo
al quadrato e infine al cerchio. La natura opera nello stesso modo
in tutti e tre i regni, quello aereo, quello vegetale e animale, e
quello minerale, perché in ciascuno di essi l'armonia deriva dallo
stesso accoppiamento di opposti, dalla stessa congiunzione dei principi
solare e lunare. La congiunzione può essere raffigurata da un serpente
(la natura) con la testa di leone (che divora il fuoco e la putrefazione)
e la coda a forma di testa d'aquila (volatilità), nell'atto di estrarre
da se stesso l'invisibile e impalpabile rugiada interna che dà compattezza
agli elementi più sottili del corpo. In essa è racchiuso il potere
del sole e della luna, che il serpente stringe fra le sue spire.
Michael
Maier, Atalanta fugirns, Oppenheim 1618
Il processo è triplice. Esso inizia con una fase androgina embrionale
che, nel caso dei metalli, corrisponde all'impregnazione di un terreno
nitroso e salino da una parte di un vapore corrosivo e acre (Zolfo
e Mercurio). I due principi vengono raccolti insieme dalla luce solare
che penetra nel terreno sotto forma di rugiada. La stessa rugiada
che nutre la vita delle piante attiva questo processo di volatilità
sotterranea. Il prodotto è detto "materia prima", o "Rebis", o "Androgino
di Fuoco" (poiché entrambi i principi sono acri e brucianti), o "Adamo"
(poiché entrambi sono il principio primo della generazione nel mondo
minerale).
Heinrich
Jamsthaler, Viatorum spagyricum, 1625
Isaac Newton preferiva chiamarlo "Caos". Paracelso, scherzando, lo
chiamava l'"Albero-con-la-Mela" o "Seme Ragazza (sale) e Polpa Ragazzo
(zolfo)" (il re e la regina accanto all'albero). La polpa col tempo
marcirà o brucerà, per essere infine ricreata della sostanza della
Ragazza (le lune). La radice di questo processo viene spesso indicata
come il Drago Velenoso. Nell'Androgino vediamo una nuvola di teste
caprine, dalle cui barbe si innalzano un ragazzo e una ragazza che
si avvolgono a spirale intorno alle gambe dello stesso. Tale significato
simbolico viene associato alla capra in India, dove la parola aja
("capra" in sanscrito) significa anche "non ancora nato" e dunque
"natura" (che sottoterra è fetida e ribollente).
Materia
prima lapidis philosophorum, manoscritto dell'inizio XVIII sec.
Perché
non è possibile identificare questa sostanza con un unico nome? Perché
essa non è necessariamente cinabro, o antimonio solforato, o alcun'altra
sostanza in quanto tale. Cercare l'equivalente chimico dell'Androgino
di Fuoco è dar la caccia ai fantasmi. L'androgino è una situazione
globale, che "accade" quando il principio della luce, del sole e della
luna, viene catturato da un terreno aspro e velenoso e comincia a
fermentare. Nella seconda fase entrano in opera i vapori di salnitro,
che corrodono e affinano l'androgino. L'androgino ora gonfia la terra
e soffia via i vapori che l'hanno penetrata, purificandoli nel corso
del processo e rendendoli fluidi. Questa fase viene detta il "bagno
dell'androgino" o della coppia regale. Essa è seguita dalla terza
e ultima fase, in cui dal marasma emerge una pasta vitrea e viscosa,
detta la "Pietra dei Filosofi", o la "Perla", o l'"Occhio del Pesce",
o il "Primo Magnete", perché attrae dal terreno circostante tutto
ciò di cui abbisogna.
Rosarium
philosophorum, 1550
Gli alchimisti danno alla sostanza che compatta i principi femminile
e maschile in natura il nome di "resina", e ritengono che essa sia
la forma energizzata del principio sulfureo. August Strindberg, nel
suo trattato Antibarbarus (Berlino, 1894), descrive come individuare
la resina nella trementina, nella guttaperca, nello zolfo comune riscaldato
in una padella, e nell'oro nascente. La resina è semplicemente la
dimostrazione di una perfetta amalgamazione dell'androgino, che dà
luogo alla pura essenza fluida dell'oro (non si tratta dell'oro comune,
che non è altro che la traccia nella materia inerte di una perfetta
amalgamazione resinosa androgina). La figura tratta da Urbigerus mostra
la sostanza androgina a sinistra nella sua prima fase, e a destra
nella sua seconda fase dopo un bagno in quella che sembra essere resina
che cola da un buco dell'albero (l'analogo dell'albero della vita
nel mondo dei metalli). Il buco dell'albero può essere rappresentato
anche come un leone verde che morde il sole, specialmente quando l'opera
di trasformazione è compiuta sul regulus di antimonio. I vapori
dell'androgino vengono raccolti allo stato fluido da una fornace in
cui sono riprodotte le condizioni della seconda fase. Il processo
è raffigurato da un uomo fiammeggiante (il minerale) e da una donna
che addita il leone e il sole simbolici, e paragona l'estrazione dei
fluidi all'ascesa della linfa in un albero.
D.
Stolcius von Stolcenberg, Viridarium chymicum, Francoforte 1624
La terza fase può essere rappresentata dalla nuova sostanza che riposa
in grembo alla madre, da un embrione che gonfia il ventre dell'androgino
dopo le abluzioni della seconda fase, o da un figlio androgino.
Si
fornisce un'immagine globale della visione alchemica dell'operato
della natura, sotto forma di due processi principali: a sinistra la
calcinazione dei corpi e a destra la distillazione delle essenze (anime
e spiriti). Ciò vale per tutti i regni naturali, ma è particolarmente
facile da illustrare nel caso di una pianta. Gli oli eterici sono
l'anima solare (zolfo) della pianta, l'alcol ne è lo spirito lunare
(Mercurius). Questi due principi sono mostrati come maschio
e femmina che entrano nella caverna di Ermes accompagnati dai loro
leoni. La pianta viene schiacciata, gli oli vengono separati e gli
spiriti vengono distillati in una storta (il pellicano). I vapori
che s'innalzano sono rappresentati da un'aquila in volo verso il cielo,
che li porta negli artigli come mondo dell'anima e mondo dello spirito.
Nell'alto dei cieli, nella fase finale dell'opera, essi si fondono
e formano la Colomba dell'amore perfetto.
Michael
Maier, Atalanta fugirns, Oppenheim 1618
Alla sinistra dell'albero della vita, il residuo oscuro della pianta,
che resta sul fondo dell'alambicco (il corvo), viene cotto dal fuoco
di marte, U, finché perde il proprio carattere plumbeo (il segno di
Saturno W) e acquista una sfumatura di stagno (il segno di Giove V)
il colore argenteo della cenere (il cigno bianco). Le ceneri sono
trattate con resine e fuoco, finché il loro sale libera la propria
"umidità radicale" (come avviene per le ceneri usate nella produzione
del vetro). Questa è rappresentata dal pavone con la coda costellata
di occhi, e in maniera ancor più appropriata dalla Fenice, che si
nutre di resine e si brucia per poter rinascere. La Fenice risorge
dalle proprie ceneri portando negli artigli due mondi (la terra e
il fuoco del processo) e, nella fase finale che ha luogo nell'alto
dei cieli, diviene il puro agnello del sacrificio. Qui il corpo calcinato
(la Fenice morta) viene saturato dalla tintura fluida (la Colomba
morta), finché le due essenze si fondono nella Pietra della Pianta
(la Pietra Filosofale), che è la pianta nella sua forma più pura ed
essenziale. Shakespeare scrisse una poesia su questo tema, The
Phoenix and the Turtle (La Fenice e la Colomba), in onore dei
due uccelli morti e divenuti un'unica essenza.
Un disegno indiano allude all'eterno processo di androginizzazione
vivificante che avviene nell'atmosfera, mostrandoci il congiungimento
a mezz'aria dell'acqua e del fuoco. Secondo l'alchimia, l'umidità
terrestre, sospesa nell'aria e impregnata dei raggi della luna, si
scioglie nei raggi del sole dando vita a due essenze androgine sottili:
Mercurius, l'essenza delle trasmutazioni, e il sale, agente
della fissazione. Insieme, dopo aver dato vita alle piante sotto forma
di rugiada, esse penetrano nella terra, dove diventano il seme dei
metalli. Vale la pena di notare che il fuoco e l'acqua nel disegno
hanno otto braccia: la fusione può avvenire solo tramite un doppio
incrocio. In una società stabile i matrimoni incrociati fra cugini
tendono ad essere istituzionalizzati, e corrispondono al passaggio
di un'affermazione superficiale dell'androginia a una più radicale
e totale. Ciò spiega forse anche perché l'anomalia dei gemelli siamesi
ermafroditi, con i loro doppi organi sessuali in ordine scambiato,
non è del tutto sgradevole all'occhio.
Anche
l'immagine rinascimentale dell'androginizzazione c'insegna la fusione
tramite incrocio . La reciproca bramosia dei due opposti (simboleggiata
dal cane) genera una spirale (rappresentata dalle spire del serpente,
dalla catena tirata in direzioni opposte dai due cupidi e dal motivo
delle viti avvolte sui loro sostegni nello sfondo). Ciò è possibile
perché, mentre la spinta solare, raffigurata dai piedi alati dell'uomo,
mantiene il maschio contratto nello sforzo (a ciò allude l'uccello
con le ali chiuse che la donna innalza sopra la sua testa), la donna
diviene volatile (com'è indicato dall'uccello con le ali spiegate
che l'uomo regge sopra la testa di lei). La fusione androgina s'innalza
a spirale solo in presenza di correnti incrociate, proprio come avviene
per l'effettivo chiasma dei nervi ottici nel cervello. C. G. Jung
ha sottolineato che in ogni intimo incontro fra un uomo e una donna
vi è sempre uno scambio incrociato, che coinvolge l'uomo e la sua
anima femminile, Anima, da una parte, e la donna e la sua anima maschile,
Animus, dall'altra. La Brhadaranyaka Upanishad (IV.3.21) dice
che "come nelle braccia di una donna amata perdiamo ogni distinzione
fra l'esterno e l'interno, così l'essere umano (purusha) abbracciato
dall'assoluto onniscente (prajnatmana) è soddisfatto in ogni
suo desiderio (kama); solo il desiderio dell'assoluto persiste,
ogni altro sparisce, così come sparisce ogni dolore".
Miniatura
indiana, Jaipur, fine XVIII secolo
La
rappresentazione simbolica del matrimonio in Picta poesis di
Barthélemy Aneau ci mostra quanto queste idee fossero vive nel Rinascimento
europeo. Il marito e la moglie sono uniti da un nodo d'amore e si
fondono nell'albero della vita, che è rappresentato anche dalla croce
che essi formano con le braccia (Mosè e il satiro, sullo sfondo, rappresentano
forse il controllo e gli impulsi, la Legge e la Natura). D. Cheney
ha notato che la scena assomiglia all'incontro fra Amoret e il marito
(che ci ricordano Salmacide ed Ermafrodito) in La regina delle
fate di Edmund Spenser (libro III, ed. 1590). Britomart li osserva,
"per metà invidioso della loro beatitudine" e "molto toccato dai loro
spiriti gentili": per metà Mosè approvante, per metà satiro adocchiante,
ovvero, nel linguaggio di Spenser, in parte devoto di Diana, in parte
donna tentata da Venere. La fusione perfetta era simboleggiata dall'amore
fra Ermes e Afrodite , dal quale nacque Ermafrodito. Michael Mayer
commenta la stampa dicendo che Ermafrodito corrisponde al Parnaso,
la montagna dalla doppia vetta dove Apollo soggiorna con le Muse e
attraverso la quale passa l'asse del mondo. Ciò suggerisce la colonna
vertebrale dell'Uomo Cosmico e il serpente Kundalini che snoda in
essa le sue spire. Queste correlazioni fra unione sessuale ed essenza
del cosmo in Occidente sono evocate solo tramite velate allusioni
in trattati alchemici, come appunto quello di Mayer, ma nei templi
dell'induismo esse erano insegnate apertamente. Su un'incisione ,
Alberto Magno, maestro di Tommaso d'Aquino, indica un androgino che
regge una Y. Alberto, ci dice il testo, rappresenta qui la suprema
autorità sia spirituale sia temporale. La Y, come insegna Filone,
è simbolo del Verbo che penetra l'essenza di tutti gli esseri. Gli
gnostici Naasseni insegnarono che esso rappresenta l'intima natura
dell'essere, che è insieme maschile e femminile e, in quanto tale,
eterna. Il globo di Khunrath rappresenta simbolicamente gli insegnamenti
fondamentali dell'alchimia. Centro ed essenza della terra è il Caos,
che qui appare come androgino (Rebis) che combina contrazione ed espansione,
femminile e maschile in una spirale unificata. Esso è la forza creatrice
della realtà. Gli opposti vengono agganciati e messi in movimento
dall'essenza della luce, che prende la forma del principio della Salinità,
di una bruciante acredine nelle viscere della terra. La spirale dell'androgino
attivato produce la "Coda di Pavone" o "Arcobaleno": materia fecondata
ed energizzata, pronta a generare il seme dei corpi minerali e vegetali.
L'applicazione pratica di questa teoria viene suggerita dall'immagine
dell'androgino sul fuoco . La materia prima androgina del regno minerale
giace in uno stato di latenza, sotto un sole eclissato e una luna
nuova. Per risvegliarsi e crescere, per ricevere i raggi invisibili
del sole e della luna, e per trasformarsi in un seme minerale, l'androgino
richiede il fuoco della fermentazione. Questo è il precetto generale.
Nell'effettiva preparazione dei farmaci alchemici ciò significa che
due sostanze opposte, come il mercurio e lo zolfo, devono venir saturate
con certi succhi e poi macinate fino a formare una polvere nera e
fine. Tale polvere viene racchiusa in un vaso sigillato e riscaldata
a fuoco lento finché fermenta. In questa stampa i corpi congiunti
rappresentano le due sostanze, l'oscurità che li circonda è il vaso
alchemico, la graticola il "calore di fermentazione" necessario perché
la trasformazione possa avvenire. Ancora oggi è possibile vedere questo
processo in atto in ogni laboratorio per la produzione di medicine
ayurvediche in India. Gli addetti praticano di quando in quando un'apertura
nel recipiente per esaminare il grado di trasformazione delle sostanze
in esso contenute, indicato dai cambiamenti di colore. Nei testi alchemici
occidentali questa fase del processo è simboleggiata dalla Coda di
Pavone che si dispiega sopra l'androgino. Per il mistico, ciò che
accade nel recipiente sigillato è la Genesi stessa in scala ridotta.
Il processo fu visualizzato in questi termini da Jacob Boehmen in
Von der Gnadenwahl (1623): "Adamo, rivestito della suprema
Gloria, né uomo né donna, bensì entrambi, temperato con entrambe le
tinture, sia come Matrice Celeste nel fuoco procreatore dell'amore,
sia come Mascolinità affine al fuoco essenziale" (5:35). Il processo
alchemico di fusione tramite fermentazione è qui rappresentato da
un re e una regina che giacciono fianco a fianco, con le loro anime
che si librano sopra i corpi nudi . Il fine del processo è lo stesso
che si proponevano le coppie di asceti del cristianesimo primitivo:
liberare i principi che animano l'essere umano tramite fermentazione
e fusione dei corpi sottili. La materia prima androgina è rappresentata
sopra un'urna, le cui quattro sezioni rappresentano i quattro elementi.
Le ali ne denotano l'incipiente volatilità, dovuta alla reazione che
coinvolge l'energia solare, centripeta, e l'energia lunare, centrifuga
(il re e la regina), in un processo spirale di fermentazione. Riassumendo
il simbolismo del disegno: i principi solare Q e lunare R, compenetrandosi
sopra la croce degli elementi + , formano il segno di Mercurio S con
le ali della volatilità rivolte verso l'alto. Le illustrazioni dei
testi alchemici ci indicano come gli alchimisti interpretassero l'operato
segreto della natura. Questo va dalla fase di ingiallimento (citrinitas)
della materia prima alchemica o Uovo Filosofico al regulus
("reuccio") di antimonio. Il regulus è il metallo purificato
per riduzione, che si deposita sul fondo del crogiolo. Il regulus
stellare di antimonio è noto per la facilità con cui si combina con
l'oro. Il disegno alchemico ne riproduce la struttura, associandola
allo spirito dell'oro che anima il regulus a livello sottile,
rappresentato dai movimenti del serpente. La forma a stella del regulus
di antimonio evoca la stella Regulus, situata nel cuore della costellazione
del Leone. È perciò forse l'antimonio il leone, il re dei metalli?
Isaac Newton lavorò con il regulus di antimonio, confidando
che esso contenesse un forte principio sulfureo, lo Zolfo Filosofico.
Lo mescolò con l'argento, ottenendo una massa plumbea che egli ritenne
essere una materia prima androgina. A questa massa aggiunse mercurio,
affinché estraesse dall'aria Mercurius, lo spirito liberamente fluttuante
di ogni trasmutazione. Newton si attenne scrupolosamente alle criptiche
istruzioni dei testi: "dovrai passare attraverso il ferro", "il ferro
era presente nel minerale grezzo originario", "dovrai usare un magnete".
Mediante una coppa di antimonio è possibile preparare un farmaco in
quantità illimitata, semplicemente versando acqua nella coppa: l'antimonio,
come un magnete, s'impregna delle influenze libere, vivificanti dell'aria.
"Dovrai usare del piombo": Newton ottenne un Piombo Filosofico. Quando
alla fine mescolò dell'oro al suo preparato, all'interno dei vasi
sigillati posti sulla fiamma vide alberi ramificarsi, apparire e scomparire,
e divampare colori iridescenti, che nel disegno alchemico sono rappresentati
dai movimenti circolari del serpente. B.J.T. Dobbs (The Foundations
of Newton's Alchemy, or the Hunting of the Greene Lyon, Cambridge/New
York, 1975) spiega l'esperienza di Newton dicendo che egli vide formarsi
e dissolversi "composti intermetallici instabili". Gli alchimisti
invece avrebbero descritto la stessa esperienza dicendo che Newton
aveva lavato l'Androgino di Fuoco, il quale dispiegò quindi il suo
"arcobaleno" o "Coda di Pavone".
Aurora
consurgens, inizio XV secolo
Unità:
la nascita e il serpente
William
Blake diede voce a una tradizione diffusa e particolarmente viva presso
gli alchimisti, immaginando che la materia visibile sia preceduta
da una fermentazione invisibile, nel corso della quale il principio
maschile della luce e del tempo ruota come una "spada fiammeggiante"
entro il velo di neve e ghiaccio del principio femminile, che rappresenta
l'essenza dello spazio. Il gelido velo o la solida crosta dell'aspetto
femminile della materia primordiale costituisce l'aspetto visibile
del reale, l'illusione cosmica o maya. Tutto ciò può essere
rappresentato come un uovo, il cui tuorlo corrisponde al principio
maschile del sole e del tempo (che altro non è che l'ombra gettata
dal sole su un quadrante), mentre l'albume e il guscio visibile corrispondono
al principio femminile dello spazio. Nel disegno alchemico l'uovo
diventa il globo, l'albume la polpa vegetale, il tuorlo il sole, raffigurato
qui come la testa maschile dell'androgino, i cui piedi femminili sono
immersi nell'elemento acqua, in fondo alla valle, o utero, situata
fra le due colline del fuoco (la salamandra) e dell'aria (le aquile).
L'Uomo Cosmico appare come il bambino, replica del globo androgino
.La stampa di Blake tratta da For the Children: The Gates
of Paradise (Per i bambini: le Porte del Paradiso), ci mostra
l'Uomo Cosmico o Uomo Eterno come Eros alato che esce dal guscio dell'uovo,
riecheggiando la tradizione greca che vede in Eros il dio dell'origine
della vita. Blake gli mette in bocca queste parole:
"I
rent the Veil where the Dead dwell:
When weary Man enters his Cave
He meets his Savior in the Grave.
Some find a Female Garment there,
And some a Male, woven with care".
"Io squarcio il Velo che avvolge i Morti:
lo stanco Uomo, entrando nella sua Caverna
incontra il suo Salvatore nella Tomba.
Colà alcuni trovano un Abito Femminile,
altri un Abito Maschile, tessuti con cura".
L'incontro con due serpenti accoppiati è presso molti popoli il più
favorevole degli auguri. Nel mito di Tiresia un tale incontro segna
l'inizio del destino di androgino e veggente del protagonista. Nello
yoga e nel tantrismo il motivo dei serpenti allacciati rappresenta
il perfetto equilibrio delle energie interne. Formicolii della spina
dorsale, serpenti eretti e falli in erezione sono fenomeni imparentati
fra di loro. Una nota acuta produce un brivido lungo la spina dorsale;
e una melodia che si snoda a spirale, suonata da un flauto, ritmata
da un tamburo o ballata da agili e leggiadre membra, fa alzare sia
i serpenti sia i falli. La particolare e completa estasi dell'androginia
è simboleggiata dal caduceo che, in quanto rappresentazione dell'accoppiamento
di serpenti, denota la corrispondenza, sezione per sezione, dell'essere
androgino con il cosmo. Nella tradizione occidentale, Giordano Bruno,
in De immenso et innumerabili (VI,5), descrive la compenetrazione
di serpenti accoppiati come emblema dell'amplesso fra il Sole-Dioniso
e la Terra-Cerere. I raggi solari, egli dice, penetrano nell'utero
dell'umidità terrestre per raggiungere eternamente il femore stesso
della madre cosmica. Il femore è l'osso con cui si fanno i flauti.
Entrare in rapporto con questo nucleo della vita cosmica è il fine
dell'adepto, sia come alchimista sia come mistico. L'adepto s'identifica
con Mercurio, il fluido principio androgino della realtà. Mercurio
dapprima è assopito e si astrae dal mondo della veglia per sognare
i giusti sogni. Il suo corpo sottile emerge dal suo inguine come un
caduceo (indicazione anche del sonno REM, in cui si producono erezioni).
Sopra di lui aleggia il principio della luce e del calore. Nella fase
successiva lo vediamo incoronato, con il caduceo perpendicolarmente
eretto che va a toccare il centro del cuore, dove il sole e la luna
si congiungono androginamente. Un piede poggia sulla terra, l'altro
sul fuoco. Nella terza immagine la trasformazione è compiuta: Mercurio
è ora il perfetto androgino e regge il globo imperiale nella mano
sinistra e il caduceo nella destra. Il caduceo è ora esternato e conferisce
armonia non solo all'uomo interiore, ma anche al mondo esterno. Saturno
e la Luna, Giove e Mercurio, Marte e Venere si fondono finalmente
l'uno nell'altro e tutti insieme in un'unità, e Mercurio li porta,
come un mazzo di fiori, dentro le viscere della terra, dove diverranno
le anime rispettivamente del piombo e dell'argento, dello stagno e
del mercurio, del ferro e del rame, formando una spirale che culmina
nell'oro solare. Il Mercurio di Agostino di Duccio ci appare all'apice
del suo potere. I dettagli di questa immagine devono essere stati
suggeriti dagli ermetici che si erano raccolti alla corte di Sigismondo
Malatesta. Le stelle sullo sfondo alludono all'armonia delle sfere;
il bastone magico guida le anime nella discesa e nella risalita dalle
profondità della terra; il gallo della vigilanza è appollaiato sul
piede sinistro; il cappello conico della magia s'innalza verso il
cielo sul capo dell'androgino, e le nubi che gli fluttuano intorno
alle ginocchia suggeriscono, come ha osservato Adrian Stokes (The
Stones of Rimini) il moto elicoidale di un vortice che s'innalza.
Il piede destro, maschile, poggia sulla roccia con cui è possibile
accendere il fuoco, mentre il piede sinistro, femminile, è immerso
nelle femminili acque. La saggezza, in greco sophia, rappresenta
il legame fra l'Unità Divina e gli archetipi ideali della Creazione.
Certi teologi russi hanno ravvisato in Santa Sofia la Quarta Persona
di Dio. Come esperienza di vita, in tutta la storia del cristianesimo,
dai primi gnostici ai recenti sofianisti russi, Sofia rappresenta
lo struggente desiderio di una pace e di una grazia oltremondane,
simile, secondo il tradizionale paragone degli gnostici, all'indefinibile
nostalgia provata dal figlio di un re che vive, ignaro delle sue origini,
in povertà. Teologicamente Sofia è lo specchio di Dio e, nel contempo,
lo specchio della pura consapevolezza per gli uomini. Essa è femmina
in rapporto a Dio, ma androgino in rapporto all'umanità. Vladimir
Solovev, il grande sofianista russo dell'Ottocento che evocò Sofia
come sfida allo Spirito dell'Umanità del pensiero positivista, vedeva
la mascolinità di Sofia manifestarsi in Gesù e la sua femminilità
in Maria.
Agostino
di Duccio, Mercurio, Tempio Malatestian Rimini, metà XV secolo, da
"Stones of Rimini" tav. 46
L'immagine di Sofia compare a Novgorod nel Mille, ma può forse provenire
da Bisanzio. Il suo aspetto infuocato deriva forse dalle descrizioni
dell'Arcangelo Purpureo della Suprema Illuminazione contenute negli
scritti dei neoplatonici persiani. Nella mano sinistra tiene il caduceo
e con la mano destra si stringe al seno una pergamena contenente i
segreti esoterici. Alla sua destra è la Vergine incinta del Bambino,
alla sua sinistra san Giovanni Battista. Questi due assistenti, i
due canali che trasmettono la sua influenza al livello della effettiva
manifestazione, sottolineano entrambi la trascendenza delle divisioni
sessuali. L'androgino, o Rebis alchemica, è alato come Sofia ed è
in tal senso una personificazione della saggezza cosmica. Un'ala è
rossa e l'altra bianca, a indicare gli spiriti dell'oro e dell'argento,
del sole e della luna, del sangue e del latte del corpo vivente della
natura. Indossa un abito nero bordato di giallo, che suggerisce il
nero della materia prima androgina in cui tuttavia sono presenti in
potenza le correnti della vita metallica aurea. Il verde del paesaggio
è il prodotto della mescolanza dei colori di Rebis. Egli/ella regge
con la mano destra un cristallo, in cui i suoi colori appaiono in
successione convergente al centro, dove va collocato l'uovo o seme
minerale che l'Androgino porta nella mano sinistra, lunare. Secondo
la teoria alchemica, lo spirito lunare agirà nell'uovo, provocando
la putrefazione della calce spenta della terra, fino ad attivare in
essa il nucleo solare latente che risorgerà allora in un corpo cristallino
vivo e capace di crescita, così come l'acredine del fuoco provoca
la putrefazione delle morte ceneri e della sabbia in un fluido vivente
che diviene infine vetro.
Sofia,
Novgorod, fine XVI secolo
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* NdC: Non sono indicati i saggi in "Conoscenza religiosa",
nonché le varie prefazioni e introduzioni, tra cui è doveroso segnalare
quelle de Il signore degli anelli: trilogia di John Ronald
Reuel Tolkien (edizione italiana a cura di Quirino Principe, Milano,
Bompiani, 2000) e de Le opere di Donatien Alphonse Francois Sade,
scelte e presentate da Elémire Zolla (Milano, Longanesi, 1961)
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